Lo tsunami che cancellò Lisbona

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Il giorno di Ognissanti del 1755 il sisma che sconvolse anche il pensiero illuminista.
Era un sabato quel giorno. Era un sabato scintillante come certe mattine di novembre quando il sole pallido rimbalza sull’ oceano e si moltiplica nei vicoli, li accende, illumina il selciato ancora umido di guazza e fa somigliare agli scivoli dei bimbi le strade di pietra che portano al mare. Era sabato, e le donne dal primo mattino erano ai banchi del mercato di Ribeira: “Senza possibilità di smentita il miglior mercato del pesce d’ Europa”, cantano le cronache dei gazzettieri di passaggio, l’ unico mercato dove si trovino balene tonni e pesce di fiume, conchiglie rosse e blu, frutti di mare ancora vivi che scivolano via dalle casse umide. Meno pescato del solito oggi, però, perché la notte prima il mare è stato cattivo: nervoso, pieno di venti, cupo. Le chiese, giacché è sabato, sono piene di gente. Quattrocento persone alla messa delle nove alla chiesa della Trinità, tanto per dirne una delle cento che si affacciano sul porto. Gente semplice alla messa delle 9. I nobili, l’ alta borghesia gli aristocratici vanno a messa alle 11, come il re le la sua regina: dopo la toilette, dopo la colazione coi dolci alla cannella e il latte tiepido, dopo la prima passeggiata nel patio a respirare il profumo dell’ aria. Dopo le prime carte da sbrigare. Sebastiano Josè de Carvalho, potente marchese di Pombal e ministro del Re, è già seduto alla sua scrivania a ricevere i primi dispacci. Fuori dalla finestra, sul lungo Tago, i ragazzini corrono in bande: è sabato, scuole chiuse e festa doppia, festa di Ognissanti. Per questo, per celebrare tutti i Santi, dalla sera prima ciascuno ha messo una candela alla finestra. Una fiamma fioca dentro a ogni casa di legno: li ucciderà tutti, quel fuoco. I superstiti bruciati nel rogo. Alle 9 e 40 minuti – in chiesa è il momento della comunione, fedeli in fila – dal mare si lega il ruggito di un mostro preistorico, la voce di un drago mai sentita prima, un rantolo che cresce e non finisce, che fa tremare le orecchie poi le case, fa fermare coi gesti a mezz’ aria i marinai e le donne del mercato, ferma la corsa dei bimbi. Poi il silenzio, poi la città che sparisce. Poi le onde alte sedici metri, poi il rogo delle candele. Dopo solo macerie, e lamenti. Dalla Gazzetta della settimana successiva: “Il terremoto iniziò alle 9 e 40 del giorno dei Santi, 1 novembre 1755. La terrà tremò tre volte per un totale di 17 minuti. Poi, per ventiquattro ore, non smise di rabbrividire”. Sono duecentocinquanta anni oggi, esatti. è vero: nei due secoli e mezzo che sono venuti dopo il terremoto di Lisbona ha perso quota nella classifica dei disastri delle ecatombi, degli tsunami degli uragani coi nomi di donna a cui da ultimo la televisione ci ha abituati ad assistere come se fossimo dentro a ciascuno. Tuttavia, come tutte le cose che si possono solo raccontare e immaginare, pur senza esserlo il Grande Terremoto di Lisbona non ha mai perso l’ alone mitico della peggiore di tutte le catastrofi: la punizione divina, l’ evento letale capace di spazzare via un impero, di cambiare il modo di pensare, la filosofia le lettere, le scienze. Qui nasce la meteorologia moderna. Qui si radica il nuovo pensiero eretico. Questa è la camera gestatoria delle rivoluzioni che sarebbero esplose pochi anni dopo. Qui il Candido di Voltaire, sopravvissuto all’ ultima onda, si ferma tra le macerie e dice: «Portatemi olio e vino, muoio. Questa è la fine del mondo». Poi no, non è la fine del mondo. Però alle 9 e 40 di questo sabato cade un crocifisso in una chiesa di Madrid che uccide due bambini, il mare invade la passeggiata delle cittadine del sud della Francia, a Cadice rompe i frangiflutti e per tre volte allaga la città, sulle coste del Marocco le case di fango e di legno sono spazzate via dalle onde, Gibilterra trema: le porte dell’ unico mondo fino a qualche secolo prima conosciuto vacillano. è un’ onda che sommerge l’ Europa e l’ Africa, arriva nei salotti parigini, scuote Voltaire, Kant e Rousseau. Adorno, il filosofo: «Il terremoto di Lisbona bastò a guarire Voltaire dalla teodicea». La domanda è: dov’ era Dio mentre il terremoto di Lisbona uccise i fedeli che Lo pregavano? Li uccise tutti insieme nelle Chiese facendo crollare i tetti su di loro, ingoiandoli nella terra. Sono le dieci di quel sabato mattina. Tre scosse hanno appena distrutto la caotica superba e splendida Lisbona imperiale, capitale dei commerci e porto verso il Brasile, le Americhe. I sopravvissuti scappano verso il mare. Dall’ Alfama, il quartiere più povero rimasto miracolosamente intatto, gli uomini corrono con i figli in braccio, caricano donne e bambini sulle piccole barche di legno ormeggiate sul Tago. Ecco l’ onda, adesso. Sedici metri, bisogna provare a immaginarsela: come un palazzo d’ acqua in verticale. Il letto del fiume si svuota, si legge nelle cronache: resta secco, tutta l’ acqua serve a colmare quell’ onda che arriva fino ai quartieri alti, quasi alla rocca e si porta via quello e quelli che restano. Poi il fuoco, le candele che bruciano le travi portanti delle case ormai crollate, e il mobili, i corpi, i resti. Novantamila morti, la città ne ha duecentocinquantamila. Più di un terzo della popolazione scomparsa. è un grado 9 della scala Richter. Dei marinai non resta nessuno. Resta il loro motto: “Navigare è indispensabile, vivere non lo è”. In effetti è andata così. Nemmeno la “Historia tragico maritima” di Bernardo De Brito, una delle più allucinanti litanie di sofferenze della storia della letteratura mondiale, aveva saputo immaginare niente di simile. Una cosa è un naufragio, un’ altra un’ ecatombe. Quel che succede dopo è sorprendente. Per ordine del re Dom Josè 1° il marchese di Pombal prende in mano la situazione. Una sorta di unità di crisi, diremmo oggi. A chi gli chiede, sgomento, cosa fare risponde: «Seppellire i morti, curare i feriti». Poi ricostruire. Subito. Le grandi fabbriche di azulejos del Portogallo nascono adesso, attorno al 1760. Con un editto si ordina che tutte le risorse del paese siano messe al servizio della ricostruzione, e più di tutti gli artigiani della ceramica – moltissimi ebrei – che dagli arabi avevano imparato l’ arte della maiolica. Le case, le piazze, i palazzi saranno da ora in avanti lastricati di azulejos: perché sono ignifughi perciò è più salubre, e più bello. Lisbona tornerà ad essere quello che era: sarà tutta come erano prima le eleganti dimore del Chiado. Tutta di nuovo come nel pannello di azulejos bianchi e blu, il “Grande Panorama di Libona prima del terremoto” ora custodito al Convento da Madre de Deus: 23 metri di panorama, l’ unico documento rimasto intatto perché gli azulejos non bruciano, appunto. Poi dette il via alle grandi indagini di meteorologia: così che «si potesse prevedere il moto dei mari e della terra». Questo voleva il marchese di Pombal: dimostrare che non è Dio e neppure il demonio chi decide il destino degli uomini. Sono gli uomini che lo fanno, e se il Fato si accanisce pazienza. Si ricomincia, sempre.

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di Concita De Gregorio
la repubblica – 1/11/2005

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