Il Protocollo di Kyoto, il cui futuro è al centro dei dibattiti alla Conferenza dell’Onu sul Clima in programma da lunedì a Doha, è l’unico strumento giuridico vincolante che limiti le emissioni di gas serra nell’atmosfera. Firmato nel novembre del 1997 è entrato in vigore otto anni più tardi e impone ai 36 Paesi membri e all’Unione Europea la riduzione delle emissioni delle sei principali sostanze responsabili del riscaldamento climatico: CO2 (diossido di carbonio), CH4 (metano), protossido di azoto (N20) e tre gas fluorati (HFC, PFC, SF6). Il vincolo pesa essenzialmente sull’utilizzo dei combustibili fossili (petrolio, gas e carbone), responsabili dei due terzi delle emissioni a effetto serra. I Paesi industrializzati – ad eccezione degli Stati Uniti che non hanno ratificato il Trattato – si sono impegnati a diminuire le emissioni del 5,2% (rispetto ai livelli del 1990) entro il 2012. Il punto debole del Protocollo è appunto l’assenza non solo degli Stati Uniti ma dei grandi Paesi emergenti come la Cina, e di fatto regola ormai solo il 30% delle emissioni globali. Rimangono anche i dubbi su un eventuale proroga del Trattato oltre il 2012, con Giappone, Russia e Canada – uscito dal Protocollo nel dicembre sorso – che non sarebbero disposti ad assumersi nuovi impegni senza la partecipazione dei principali Paesi inquinatori; solo l’Ue si è detta disposta a un ulteriore impegno, sottolineando però di rappresentare solo l’11% delle emissioni globali. Un eventuale Kyoto 2 rischia dunque di essere ancor meno ambizioso, dal momento che riguarderebbe in sostanza solo Ue ed Australia, ovvero circa il 15% delle emissioni globali di gas serra: a Doha dovrà essere decisa la durata del nuovo protocollo (da due a otto anni), il numero dei Paesi coinvolti e gli obbiettivi di riduzione delle emissioni.