Un approfondimento con il prof. Enzo Mantovani sulla pericolosità sismica nell’Appennino settentrionale, tema assolutamente attuale dopo le recenti scosse di terremoto
I recenti sciami sismici dell’Appennino Tosco-Emiliano e della Val d’Elsa-Chianti hanno riportato alla ribalta il problema della salvaguardia del nostro territorio dal rischio sismico e alimentato nuovamente la discussione sulla possibilità, ancora remota, di prevedere i terremoti. Se ancora siamo lontani dallo stimare l’eventualità che un sisma colpisca una data zona in un certo esatto momento, è comunque possibile capire, grazie agli studi di sismotettonica, quali zone siano le più vulnerabili e, di conseguenza, identificare le aree in cui diventano prioritari gli interventi per la messa in sicurezza del patrimonio edilizio e dei cittadini. In esclusiva per MeteoWeb, il Prof. Enzo Mantovani (docente di Fisica Terrestre presso il Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente dell’Università di Siena) analizza la situazione.
E’ risaputo che l’unico modo veramente efficace per difendersi dai terremoti è quello di rendere ragionevolmente sicuri i manufatti in cui si svolge la vita delle persone. Ma allora perché non viene fatto nulla o quasi nulla in questa direzione ? Solo poche regioni italiane, tra cui la Toscana, hanno stanziato risorse non trascurabili per la messa in sicurezza di edifici strategici, come scuole, ospedali ecc. Eppure la storia sismica del nostro paese suggerisce fortemente che questo fenomeno continuerà a provocare danni e vittime nel prossimo futuro.
Uno dei motivi per cui le iniziative in questo settore sono molto scarse è legato al fatto che la pericolosità sismica è sottostimata in molte regioni italiane, come già più volte sottolineato e argomentato dettagliatamente in questo sito (vedi link in bibliografia) e in varie pubblicazioni edite dalla Regione Toscana, dalla Regione Emilia-Romagna e dal Dip. di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente dell’Università di Siena (Mantovani et alii, 2011, 2012a, 2013, 2014).
Per capire questo fatto in modo esplicito, è sufficiente considerare un esempio clamoroso, relativo alle scosse che nel maggio 2012 hanno provocato gravi danni e vittime nella pianura emiliana. Tutti sanno che una parte consistente della produzione industriale italiana viene svolta in quella zona, all’interno di un notevole numero di capannoni prefabbricati. Dopo che le scosse del 20 e 29 maggio erano avvenute e rimaneva solo da constatare i danni e piangere le vittime, ci si è resi conto che la quasi totalità dei capannoni presenti in quella zona era sprovvista di un elementare accorgimento di sicurezza, cioè la connessione meccanica tra le pareti portanti e le coperture. Senza questi collegamenti, gli scuotimenti orizzontali provocati dal terremoto hanno fatto spostare lateralmente le pareti togliendo il sostegno alle coperture, che sono quindi crollate in testa ai malcapitati che si trovavano al lavoro durante le scosse.
Il fatto che in tempi relativamente brevi (circa due anni) i capannoni sono stati finalmente dotati dei collegamenti mancanti, dimostra chiaramente che il problema era tutt’altro che insormontabile. Allora, perché le autorità preposte sia a livello nazionale che regionale non hanno ritenuto necessario sollecitare tutte le industrie della zona a rendere più sicuri i capannoni? La risposta è purtroppo semplice: molti pensavano che questa misura non fosse realmente necessaria. Quindi, perché sciupare risorse preziose (anche se limitate) per installare sicurezze ritenute quasi inutili?
L’idea che il pericolo nella zona sia limitato non è sorta per caso. E’stata molto incoraggiata dal fatto che la carta ufficiale di pericolosità porta a classificare le zone colpite come poco pericolose.
Quindi, la prima cosa da fare è dotarsi di carte più realistiche, cioè più aderenti all’effettiva potenzialità sismica delle zone in oggetto, documentata dalla storia sismica, rinunciando alle stime attualmente in vigore, derivate da analisi statistiche basate su assunzioni irrealistiche (Mantovani et alii, 2012a,b, 2013, 2014).
Però, conoscere i reali pericoli che si corrono non è sufficiente per attenuare in modo significativo il problema, perché gli interventi che sarebbero necessari per ottenere un accettabile riduzione del rischio su tutto il territorio nazionale avrebbero un costo enormemente superiore alle risorse attualmente disponibili.
L’unica possibilità di trovare una praticabile via di uscita da questa difficile situazione è basata sul seguente ragionamento. Considerando la storia sismica conosciuta, è plausibile prevedere che nei prossimi decenni solo poche zone dell’Italia saranno colpite da scosse forti. Questo implica che nel breve termine (per esempio una decina di anni) c’è solo una piccola parte del territorio italiano che corre un rischio elevato. Quindi, se fosse possibile individuare tali zone con accettabile attendibilità, il problema si semplificherebbe in modo notevole, perché gli interventi da effettuare sarebbero molto più limitati e potrebbero quindi diventare compatibili con le attuali disponibilità economiche del paese.
La possibilità di ottenere informazioni su zone sismiche prioritarie va perciò considerata con molta attenzione, viste le notevoli ricadute che potrebbe avere sulla difesa dai terremoti in Italia. Questa nota si prefigge di dare un’idea, anche se molto sintetica, della procedura che potrebbe produrre le conoscenze sopra citate per la zona italiana e per l’Appennino settentrionale in particolare. A chi è interessato in una spiegazione più esaustiva rimandiamo alle pubblicazioni citate.
In vari lavori (Mantovani et alii, 2010, 2012a,b, 2013, 2014) è stato suggerito che la distribuzione spazio-temporale dei terremoti forti in una data zona è strettamente connessa con il quadro tettonico in atto (cioè la configurazione delle strutture e l’insieme delle forze che le stanno sollecitando). La distribuzione degli sforzi e delle deformazioni, però non è stazionaria nel tempo, in quanto si evolve in base ai terremoti forti che avvengono nelle zone di svincolo tra i blocchi presenti. Ogni volta che una scossa agevola lo scorrimento lungo una faglia, i blocchi si spostano fra loro (da pochi centimetri ad alcuni metri, in funzione della magnitudo dell’evento), intensificando lo sforzo nelle faglie ancora bloccate, dove la probabilità di attivazione sismica aumenta di conseguenza. Questo suggerisce che conoscendo il quadro tettonico in atto e la distribuzione dei terremoti principali avvenuti nel periodo precedente, potrebbe essere possibile tentare di riconoscere quali zone attualmente sono attualmente più esposte ai prossimi terremoti forti in una determinata regione. La praticabilità di questo tipo di approccio è stata dimostrata da numerosi studi in tutto il mondo (e.g., Rydelek e Sacks, 1990; Freed et alii, 2005, 2007) e soprattutto nell’area mediterranea centrale (Mantovani et alii, 2010, 2012a, 2015a; Viti et alii, 2012, 2013, 2015). In particolare, in quest’ultima regione le evidenze individuate hanno consentito di prevedere (a posteriori) la localizzazione di scosse avvenute nel periodo successivo al 1400.
L’applicazione di questa indagine alla zona italiana suggerisce che, in seguito alle scosse forti avvenute nella catena appenninica negli ultimi decenni, si sono create nell’Appennino settentrionale condizioni più favorevoli per l’attivazione sismica delle faglie presenti (Mantovani et alii, 2015a,b; Viti et alii, 2015). Questa previsione è compatibile con il fatto che la zona in oggetto è affetta da un livello di sismicità di fondo molto superiore a quello delle altre zone appenniniche (Fig. 1), rivelando la presenza di un carico tettonico più elevato.
L’analisi delle deformazioni geologiche recenti ha permesso di capire che sotto l’azione delle forze tettoniche la fascia orientale della catena appenninica (verde in figura 2) si sta muovendo più velocemente rispetto al settore occidentale della catena (grigio in figura 2). Questo movimento però, non è omogeneo spazialmente e continuo nel tempo, ma avviene a scatti successivi e per parti limitate, in risposta ai terremoti forti che (provocando scorrimenti sulle faglie) permettono il disaccoppiamento dei cunei mobili rispetto alle parti più statiche della catena. Le principali scosse che si sono verificate nell’Appennino meridionale e centrale durante il periodo precedente (Fig.3) hanno permesso alle parti meridionale (Molise-Sannio) e centrale (Abruzzo) della catena mobile di svincolarsi progressivamente dalla catena interna e di subire quindi uno spostamento circa verso Nord/Nord Est. La conseguente spinta che queste strutture mobili hanno esercitato sul settore più esterno del cuneo umbro-marchigiano dell’Appennino settentrionale ha indotto quest’ultimo a separarsi dalla catena interna, come rivelato dalle scosse del 1979 (Norcia, M= 5.9), 1984 (Gubbio, M= 5.7) e 1997 (Colfiorito, M= 5.7, 6.0, 5.5, 5.7).
Dopo questi svincoli sismici, la parte più settentrionale del settore umbro-marchigiano-romagnolo ha accelerato, accentuando lo sforzo lungo le possibili zone di svincolo rispetto alla catena interna (Gubbio, Alta Valtiberina) e nelle discontinuità interne, come il sistema di faglie presenti nell’Appennino Romagnolo e Forlivese (Ro-Fo in fig.2). Questa ipotesi è consistente con il fatto che negli ultimi decenni la sismicità di fondo si è concentrata lungo le principali zone di svincolo del cuneo RMU con particolare riferimento ai sistemi di faglia Norcia-Gualdo Tadino- Colfiorito-Gubbio-Alta Valtiberina-Appennino Romagnolo-Forlivese-Sillaro-Appennino Emiliano-Pistoiese- Pieghe Ferraresi (Fig.4).
Un’altra evidenza molto importante, a testimonianza del fatto che il settore appenninico mobile si sta separando dalla catena interna, è fornita dal campo cinematico attuale, ricostruito mediante misure geodetiche GPS (Fig. 5), che ha permesso di quantificare la differenza di velocità tra il settore esterno (4-5 mm/anno, circa verso NE) e quello interno (1-2 mm/anno, circa verso Nord/Nord Ovest).
In questa situazione, ci si potrebbe aspettare che le zone di disaccoppiamento ancora bloccate possano essere attivate nel prossimo futuro da crisi di sismicità minore o da terremoti medio-intensi. A questo riguardo, utili informazioni sono fornite dalla figura 6, dove si può notare che dopo i forti terremoti di Colfiorito (1997) e L’Aquila (2009, M=6.3) si sono verificate crisi sismiche (con centinaia di scosse minori in tempi relativamente brevi) in quasi tutti i settori situati lungo il bordo della struttura mobile. Lo sviluppo di questa attività (dopo una quiescenza quasi totale di tutte le zone nel periodo precedente il 1996) potrebbe essere dovuta al fatto che le scosse forti del 1997 e 2009 hanno favorito una maggiore mobilità del suddetto cuneo, che ha indotto, e sta tuttora inducendo, più numerosi cedimenti delle microfaglie presenti lungo i margini delle strutture mobili. Alcuni segnali in questo senso possono essere costituiti dagli sciami sismici che si sono verificati recentemente nelle zone del Sillaro, Appennino emiliano e pistoiese e Val d’Elsa. Una considerazione a parte si può fare per il settore di Gubbio, dove negli ultimi due anni si è verificata una lunga serie di scosse minori (oltre 900 eventi), tuttora in corso. Siccome nella storia sismica conosciuta questa zona non ha mai subito scosse di magnitudo superiore a 5.3, si potrebbe supporre che la crisi in atto riveli la limitata resistenza allo scorrimento di questo sistema di faglie, che tende quindi ad attivarsi con numerose scosse minori piuttosto che con terremoti medio-intensi.
Un altro aspetto che potrebbe avere importanti implicazioni sulla sismicità futura di questa zona è dato dal fatto che nel settore dell’Alta Valtiberina l’attività sismica strumentale è stata finora molto bassa (almeno negli ultimi 30 anni, Fig. 6). Questo potrebbe significare che in tale settore lo scorrimento sismico è temporaneamente inibito da un alto valore delle forze di attrito o da complicate configurazioni delle faglie presenti, una situazione che allunga la fase di accumulo della deformazione e di conseguenza fa lievitare la probabilità di scosse medio-intense, cioè terremoti che questa zona ha già generato molte volte in passato. Altri settori del bordo del cuneo mobile che sono stati colpiti in passato da numerose scosse forti sono l’Appennino Romagnolo e il Forlivese.
Quindi, può essere utile prendere in considerazione la loro storia sismica di queste due zone (Tabella), per avere un’idea della loro possibile potenzialità sismica, concernente per esempio l’intensità massima raggiunta (Imax nella scala MCS) e i tempi intercorsi (Ti) tra le scosse maggiori.
Per l’Alta Valtiberina, il valore di Imax risulta essere IX-X. Il tempo di ritorno medio delle scosse è di 53 anni per I?VII, 145 anni per I?VIII e 203 anni per I?IX. Gli ultimi eventi con I=VII e IX sono rispettivamente avvenuti 67 anni fa (1948) e 98 anni fa (1917). Il più corto e il più lungo tempo di inter-evento sono stati 1 e 134 anni per I?VII, rispettivamente, e 1 e 400 anni per I?IX.
Per la zona Appennino Romagnolo-Forlivese, Imax è X, il Ti medio è 44 anni per I?VII, 113 anni per I?VIII e 169 anni per I?IX, rispettivamente. Gli ultimi eventi con I=VII e I=IX si sono verificati 59 anni fa (1956) e 97 anni fa (1918). Il più corto e il più lungo tempo di inter-evento sono 4 e 104 anni per I?VII, e 13 e 137 anni per I?IX. E’ comunque opportuno considerare che le stime sopra riportate possono essere notevolmente influenzate da eventuali (molto probabili) incompletezze della parte più antica dei cataloghi sismici.
Considerato che le informazioni sopra riportate sono gli unici elementi che possono essere usati per tentare una valutazione del periodo che ci separa dalle prossime scosse forti nelle due zone considerate prioritarie, risulta evidente che l’incertezza su questo problema è notevole.
Ovviamente, non ci sono garanzie che le previsioni suggerite in questa nota si verificheranno nel prossimo futuro, vista la notevole complessità del problema in oggetto e la limitatezza dei cataloghi attualmente disponibili. Siccome, però la plausibilità delle evidenze e argomentazioni a sostegno delle scelte proposte può essere facilmente verificata, anche da non esperti del settore, consultando le pubblicazioni relative (Mantovani et alii, 2009, 2010, 2012, 2013, 2014, 2015a,b; Viti et alii, 2006, 2012, 2013, 2015), ritengo che incrementare il grado di sicurezza degli edifici nelle zone segnalate sia un’iniziativa molto proficua. A questo riguardo è utile ricordare che interventi semplici e relativamente poco costosi, mirati a rendere solidali tra loro le pareti portanti di un manufatto, possono salvare vite umane e ridurre notevolmente i danni attesi, anche da scosse relativamente forti. E’ evidente che questo consiglio non vale solo per le zone indicate, ma può essere utile per tutte quelle considerate pericolose in Italia. Comunque, si potrebbe sperare che le informazioni fornite in questa nota riescano a stimolare l’inizio di queste pratiche virtuose almeno nelle zone dove gli effetti positivi degli interventi di consolidamento potrebbero essere apprezzati nei tempi più brevi.
L’unica controindicazione delle previsioni qui tentate potrebbe essere quella di suscitare ansia nelle popolazioni delle due zone citate. Per limitare al massimo questo problema, è assolutamente necessario ribadire che le ipotesi formulate non forniscono informazioni sulla tempistica delle scosse attese (che potrebbero avvenire domani o tra decine di anni). Quindi, le previsioni proposte non vanno certe prese come un allarme, ma solo come un tentativo di individuare le zone dove sarebbe più urgente realizzare gli interventi per la messa in sicurezza del patrimonio edilizio esistente.
Nelle pubblicazioni qui citate sono riportate evidenze e argomentazioni che suggeriscono la necessità di dedicare attenzione anche ad altre zone sismiche italiane, con particolare riferimento alle parti settentrionale e orientale della Sicilia (e.g., Mantovani et alii, 2015a,b; Viti et alii, 2015). Anche in questo caso, è comunque doveroso chiarire che le conoscenze attuali non consentono di fare previsioni sulla tempistica delle scosse attese.
Link articoli Meteoweb:
- https://www.meteoweb.eu/2014/06/terremoti-prevenzione-sottovalutazione-rischio-sismico-caso-umbria-marche/293034/
- https://www.meteoweb.eu/2014/05/terremoti-disastro-imminente-sud-previsioni-realistiche-parere-dellesperto/284515/
- https://www.meteoweb.eu/2014/04/terremoti-rischio-sismico-troppo-sottovalutato-anche-al-centrosud-il-caso-roma/279264/
- https://www.meteoweb.eu/2014/03/terremoti-in-italia-la-pericolosita-sismica-e-troppo-sottovalutata-alcune-evidenze-per-il-centronord/268973/
- https://www.meteoweb.eu/2014/02/terremoti-al-sud-e-sui-balcani-lesperto-ma-adesso-una-forte-scossa-e-piu-probabile-al-nord/262593/
- https://www.meteoweb.eu/2014/02/terremoti-parla-il-prof-mantovani-carte-di-pericolosita-sismica-in-toscana-ed-emilia-romagna-ulteriori-ragioni-per-rinunciare-alle-valutazioni-statistiche/259625/
- https://www.meteoweb.eu/2014/01/terremoti-universita-di-siena-e-necessario-rivedere-le-mappe-di-rischio-sismico/254693/
- https://www.meteoweb.eu/2013/10/come-e-perche-rivedere-la-pericolosita-sismica-in-italia-lesempio-di-emilia-romagna-e-toscana-parla-il-prof-enzo-mantovani-esperto-di-sismotettonica/232576/
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