Era il caldo 6 maggio del 1976 quando la terra tremò brutalmente in Friuli, erano da poco passate le 21 e, da quel momento in poi, quei luoghi, quella gente e l’intera comunità non sarebbero più stati gli stessi. Il terremoto del Friuli rimarrà per sempre una pagina tragica della storia italiana e chi lo ha vissuto lo sa bene. Non fu subito chiaro cosa era successo: il terrore di chi urlava al bombardamento, le comunicazioni interrotte, la polvere che rendeva tutto più confuso. Gli autotrasportatori che passavano per le zone di Venzone, Gemona e Osoppo fornirono i primi dettagli: ”Qui e’ tutto un polverone, si sentono grida in lontananza… non capiamo, forse c’e’ stato un terremoto”, riferirono. Ma nulla fu chiaro fino alle prime ore del mattino quando il sole portò alla luce quello che la notte era riuscita sapientemente a celare: edifici distrutti, un tappeto di detriti e ovunque morte.
Il terremoto in Friuli fu una parentesi drammatica della nostra storia, certo, ma riuscì anche a mettere in moto una macchina di solidarietà impeccabile e commuovente: da ogni parte arrivarono gli “angeli”, volontari pronti a scavare a mani nude che, già il giorno seguente, salvarono tante vite umane. E, ancora, provvidenziale l’intervento dello Stato: il presidente del Consiglio Aldo Moro nominò Giuseppe Zamberletti come commissario straordinario, incaricato del coordinamento dei soccorsi e della gestione dei fondi statali destinati alla ricostruzione di un territorio completamente devastato. Territorio, tra l’altro, obbligato a piangere quasi mille dei suoi cittadini, morti durante il sisma.
Ma non fu solo la scossa di 6.1 gradi della scala Richter a devastare il Friuli, altre scosse tornarono a far tremate la terra a Settembre. Ancora distruzione, ancora disperazione. Stato e Regione furono protagonisti di un impiego di forze senza eguali: 13 miliardi di euro per la ricostruzione completa. Fondi che arrivarono anche dall’estero, dai tanti Paesi verso cui il popolo friulano era emigrato negli anni precedenti: Argentina, Stati Uniti, Paesi europei e perfino Australia.
Si cercò di salvaguardare soprattutto il lavoro. “Prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese“, queste le parole che risuonavano ormai come un motto, fatte proprie anche dalla curia udinese. Si comprese che lavoro e famiglie dovevano essere i primi ad essere salvaguardati, soltanto dopo si poteva pensare a rimettere tutto a posto, come prima dell’Orcolat (“Orco” è come i friulani parlano del terremoto). Effettivamente, si trattò di un’operazione straordinaria che vide l’impegno profuso di regioni e comuni, con i sindaci in prima linea per ripristinare il futuro delle proprie comunità.
Oggi, a distanza di 40 anni, il terremoto del Friuli resta un ricordo lontano ma nitido per coloro che l’hanno vissuto. La ricostruzione ha riportato tutto alla normalità, con la ristrutturazione dei comuni più colpiti, soprattutto quelli in provincia di Udine e Pordenone. Un’esperienza dolorosa, che però ha permesso all’Italia intera di riconoscere i meriti del popolo friulano, un popolo forte, tenace e tanto generoso.