Brexit: 60 anni di odio e amore tra Londra e Bruxelles, ora la separazione

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Il rapporto tra Londra e il resto d’Europa, poi diventata Unione Europea, non è mai stato un matrimonio di vero amore, anzi. Sessant’anni di relazioni spesso difficili, che nel referendum dello scorso giugno i britannici hanno deciso di troncare definitivamente. Oggi, la premier Theresa May presenta alla Ue la richiesta definitiva di divorzio e nei prossimi due anni si dovrà decidere se lasciarsi da buoni amici o farsi una guerra senza esclusione di colpi per dividersi i beni in comune, stabilire l’entità degli alimenti e l’affidamento dei figli. Si inizia nel 1957, con la firma del Trattato di Roma. I sei membri fondatori della Comunità economica europea – Francia, Repubblica federale tedesca, Italia, Belgio, Lussemburgo e Olanda – invitano la Gran Bretagna ad unirsi a loro. Ne ricevono un garbato ma fermo, “no, grazie”.

Il Regno Unito vive ancora nel mito della propria eccezionalità. Il ricordo dell’Impero è ancora vicino nel tempo, la guerra vinta ha lasciato una nazione impoverita, ma più che mai convinta del suo destino di grande potenza. E in fondo, il seggio permanente all’Onu , il ‘rapporto speciale’ con gli Usa e il Commonwealth che ha rimpiazzato l’Impero sono lì a

LaPresse/Reuters
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confermarlo. Nel 1963, con un’economia in difficoltà, Londra fa il primo tentativo di entrare nel Mercato Comune, ma stavolta è la Francia di Charles de Gaulle a dire “no” alla richiesta del premier Harold Mcmillan, che si era reso conto dell’errore fatto sei anni prima. Il presidente francese ritiene – e non a torto – che i britannici siano “diversi dai continentali” e che di fatto, al di là dell’interesse per il mercato unico, abbiano un atteggiamento “ostile” verso l’iniziativa Europea. Dieci anni dopo, nel 1973, con de Gaulle fuori di scena, la Gran Bretagna, guidata da un convinto europeista, Ted Heath, entra nella Comunità economica europea. Neanche il tempo di finire la luna di miele che iniziano i primi, seri problemi. Londra chiede la riforma della politica agricola comune, giudicata troppo favorevole alla Francia, e dei criteri di finanziamento del bilancio europeo. A cavalcare l’ondata euroscettica sono i Laburisti, a testimonianza che l’ostilità a Bruxelles non è un’esclusiva dei Conservatori. Nel 1975, il governo di Harold Wilson istituisce il primo referendum sull’appartenenza alla Cee.

“Dentro o fuori”, è il quesito. La decisione spacca il partito, ma la consultazione si conclude con due terzi degli elettori che confermano l’adesione all’Europa. Nel 1983, un altro leader laburista, Michael Foot, promette nel suo programma elettorale l’uscita dalla Cee, ma viene brexit (1)pesantemente sconfitto alle elezioni dai Conservatori di Margaret Thatcher, schierati invece per il ‘Remain’. Nel 1984, la Lady di Ferro ottiene da Bruxelles il famoso “rebate”. Il rimborso parziale dei contributi versati all’Europa, per le penalizzazioni subite da Londra riguardo alla politica agricola comune, in particolare rispetto alla Francia. Dai Conservatori è considerata una vittoria chiave, soprattutto in termini simbolici, nel rapporto con l’Europa. Nel 1990, la Gran Bretagna entra anche nel sistema di Accordi europei di cambio (Erm), ideato 11 anni prima per armonizzare i sistemi finanziari dei Paesi europei in vista della creazione di una moneta unica. Il 16 settembre del 1992 verrà però ricordato come il ‘Mercoledì Nero’ della sterlina.

Londra è costretta ad uscire dall’Erm dopo che la Banca d’Inghilterra non riesce a fronteggiare le forti speculazioni sulla valuta britannica. Nel 1997, dopo l’analisi fatta dall’allora cancelliere dello Scacchiere Gordon Brown – “non ci conviene” – la Gran Bretagna annuncia che non entrerà nella moneta unica europea. Non è il “no, grazie”, del 1957, ma Brexitci somiglia molto. Nel 1999, ennesimo scontro con la Francia. Tra Londra e Parigi si verificano forti tensioni dopo la messa al bando da parte francese della carne britannica, a seguito del diffondersi della cosiddetta malattia della “mucca pazza”. Bruxelles protesta, ma la Francia non cede. Nel 2007, Gordon Brown, nuovo premier laburista dopo l’uscita di scena di Tony Blair, non partecipa alla cerimonia della firma del Trattato di Lisbona, alla quale prendono parte tutti gli altri leader europei. Il Trattato assegnava maggiori poteri a Bruxelles. E forse oggi Gordon Brown, che si è battuto per il ‘Remain’, si starà domandando se non era il caso di tentare di incidere di più allora sull’assetto della Ue, invece di ritrovarsi oggi ad assistere ad un divorzio che rischia anche di spaccare il Regno Unito, con la rinnovata volontà indipendentista della sua Scozia. Nel 2011 tocca invece al premier conservatore David Cameron scontrarsi con l’Unione Europea su una serie di provvedimenti relativi alle banche e al settore finanziario della City, motore dell’economia britannica. Nel 2013, per mettere a tacere la fronda euroscettica nel suo partito, convinto poi di poter vincere la battaglia finale, Cameron si impegna a convocare un nuovo referendum “fuori o dentro” sulla Ue in caso di vittoria nelle elezioni del 2015. Vinte le elezioni, a febbraio dello scorso anno Cameron conclude il lungo negoziato con la Ue, con il quale vengono ridefiniti alcuni criteri di appartenenza della Gran Bretagna all’Unione.

Spetterà agli elettori britannici decidere se quanto ottenuto dal premier è sufficiente per confermare l’appartenenza all’Europa. Nel referendum del 23 giugno i britannici dicono di brexitno. Cameron ha perso la sua scommessa ed è costretto ad uscire di scena. Lo sostituisce la sua ministro dell’Interno, Theresa May, che pur schierata per il ‘remain’ si è tenuta a distanza di sicurezza dalle polemiche della campagna referendaria e questo le consente oggi di passare alla Storia -in che modo lo vedremo- come la premier della BREXIT. Il resto è la storia di questi ultimi nove mesi, fatta di tante speculazioni e nessuna certezza sui termini del divorzio tra Londra e Bruxelles. “Nessun accordo è meglio di un pessimo accordo”, ha continuato a dire la May. Ma il prezzo di un distacco traumatico potrebbe essere troppo alto per tutti.

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