Zafferano, un’opportunità per la Basilicata

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Lo zafferano (Crocus sativus L.) ha origini remote: il documento più antico che ne attesta la conoscenza è un papiro egiziano del XV secolo a.C., ma lo troviamo citato anche da autori quali Ippocrate, Galeno, Lucrezio, Virgilio e Plinio. In passato, il fiore costituiva un prodotto di lusso e veniva usato per tingere abiti di re e regine, per profumare templi, per riempire cuscini o per colorare le guance e i capelli delle donne. Originario del Medio Oriente o dell’Asia Minore – spiega Rita Bugliosi nell’Almanacco della Scienza del CNR – è giunto in Italia nel 1200 grazie a un frate domenicano. Il suo nome deriva dalla parola araba ‘za’faran’, originata a sua volta da ‘asfar’, che significa ‘di colore giallo’. La parte più pregiata del fiore, lo stigma (parte superiore del pistillo su cui si posa il granulo pollinico) costituisce la spezia che, oltre a essere apprezzata in cucina, è caratterizzata da numerose proprietà benefiche: antiossidanti, antidepressive, antidiabetiche, anticolesterolemiche, sedative, antitumorali, antipertensive e capaci di contrastare le malattie cardiache e quelle neurodegenerative, come l’Alzheimer e il Parkinson.

“La qualità dello zafferano dipende dalla presenza di tre principi attivi, crocina, picrocrocina e safranale, responsabili rispettivamente del potere colorante, amaricante e odoroso che ne fanno una spezia complessa, perché in grado di conferire contemporaneamente colore, sapore e aroma ai cibi”, spiega Nunzia Cicco dell’Istituto di metodologie per l’analisi ambientale (Imaa) del Cnr. “Nel nostro Paese le coltivazioni sono concentrate soprattutto in Sardegna, Abruzzo, Toscana, Umbria e Marche, ma recentemente si stanno diffondendo anche in altre regioni, tra cui la Basilicata. Ed è proprio qui che l’Imaa-Cnr, in collaborazione con la Scuola di Scienze agrarie, forestali, alimentari e ambientali dell’Università degli studi della Basilicata (Safe-Unibas) ha condotto uno studio per valutare gli aspetti qualitativi della spezia nell’ambito dell’adattamento della coltura a diverse aree del territorio lucano”.

L’attività di ricerca è stata svolta in diverse località (Genzano di Lucania, Castelgrande, Villa d’Agri, Matera) e i campi sperimentali sono stati allestiti impiegando bulbo-tuberi di tre ecotipi: zafferano di Sardegna, dell’Aquila e di Kozani (Grecia). “Una volta effettuata la raccolta, i fiori sono stati portati in laboratorio dove gli stigmi, separati dal fiore, sono stati essiccati e sottoposti ad analisi qualitative, svolte proprio presso l’Istituto del Cnr, secondo la normativa ISO”, prosegue la ricercatrice. “Dopo un triennio di attività, i risultati hanno evidenziato che la pianta ha avuto un buon livello di adattamento a diverse condizioni pedo-climatichelocali; il miglior ecotipo dal punto di vista produttivo e qualitativo è risultato quello sardo, seguito dal greco e dall’abruzzese. Lo zafferano può quindi rappresentare per gli agricoltori lucani una valida opportunità per incentivare il turismo gastronomico nella zona”.

Recentemente l’Imaa-Cnr, sempre in collaborazione con Safe-Unibas, sta conducendo altre attività di ricerca sullo zafferano, relative al materiale di scarto e a sistemi di coltivazione innovativi. “Attualmente, solo gli stigmi del fiore, opportunamente essiccati e polverizzati, sono usati per colorare e aromatizzare i cibi. I tepali dei fiori, sebbene presentino un profilo chimico simile a quello degli stigmi e costituiscano la maggior parte del fiore (circa l’80%), sono invece inutilizzati. Ed è proprio la composizione fitochimica di queste parti a suscitare sempre maggiore interesse nella comunità scientifica per le potenzialità di utilizzo nel settore alimentare e salutistico legate alle loro proprietà antiossidante, citotossica e antifungina”, conclude Cicco.

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