“Scegliere quale pesce metterete nel piatto questa sera è un atto politico”: a Slow Fish si discute di strategia marina e piani per il futuro

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Pescatori, chef e consumatori, all’erta: scegliere quale pesce metterete nel piatto questa sera è un atto politico. Se negli anni Sessanta erano almeno una quarantina le specie ittiche presenti sulla tavola degli italiani, oggi il grosso dei consumi viene coperto da non più di dieci prodotti. Lo ricorda inaugurando l’ottava edizione di Slow Fish, apertasi al Porto Antico di Genova, il biologo marino Silvio Greco, presidente del Comitato scientifico che sovrintende l’evento internazionale di Slow Food e Regione Liguria dedicato al pesce e alle risorse del mare.

Mentre molte ricette della tradizione scompaiono dalla memoria, altri abitanti del mare fanno capolino nel nostro orizzonte gastronomico: è il caso delle meduse, sempre più presenti e invasive. Ma anche delle oloturie, i “cetrioli di mare”, apprezzatissimi in Oriente come snack ma ormai sovrasfruttati – tanto che ci si spinge a pescarli in acque molto remote. Attenti però a pensare che non ci siano conseguenze nel consumare questi animali, avverte il presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, Roberto Danovaro: «Non è certo normale pensare di mangiare aquile, leoni e tigri, eppure in mare stiamo facendo qualcosa di simile».

In altri casi, invece, il mercato spinge per tornare a sfruttare risorse che già in passato sono finite sull’orlo dell’estinzione: l’Ue aveva contingentato nel 2006 la pesca del tonno rosso, per consentirne il ripopolamento entro un periodo di quindici anni aumentando progressivamente le quote. Il problema, ricorda Silvio Greco, è che il ciclo biologico della specie richiede almeno cinque o sei anni per la prima riproduzione: «Non ha senso scardinare il sistema delle quote prima di essere sicuri che si sia innescato un circolo di rinnovamento, come rischiamo invece di fare adesso per assecondare le pressioni dell’industria».

Quel che si muove nel piatto, insomma, ma non è questione di pura e semplice gastronomia. I grandi cambiamenti, a cominciare da quelli climatici, investono il nostro intero modo di vivere: sappiamo che la concentrazione media di anidride carbonica nell’atmosfera ha ormai superato le 400 parti per milione (ppm), una soglia che secondo l’Organizzazione Meteorologica Mondiale rappresenta l’ingresso in una nuova era climatica. Ma cosa c’entra l’aria che respiriamo con l’acqua dei nostri mari? Sul punto risponde Danovaro: «Il mare sequestra quasi il 40% dell’anidride e produce una molecola di ossigeno su due che respiriamo. Può darsi che non si riesca sempre a dare un valore economico a tutto questo, ma nemmeno respirare la metà!».

Il Mediterraneo, dal punto di vista ambientale, rappresenta un caso unico: copre appena l’1% delle acque mondiali ma racchiude il 10% della biodiversità. Per questo è fondamentale capire come mantenere sano questo mare, e non solo in termini di balneabilità.

L’Unione Europea ci sta provando con la strategia marina, un piano integrato di interventi per misurare secondo parametri certi il “buono stato ambientale” delle acque: «La strategia marina è una rivoluzione. Se prima eravamo abituati a pensare che i problemi riguardassero soprattutto la contaminazione chimica, ora ragioniamo in termini di ecosistemi».

Anche negli ambienti profondi, cioè – spiega Danovaro – nel 95% dei mari e degli oceani, dove vive il 90% del pesce: «La pesca si sta spostando negli abissi per seguire il mercato, ma di quello che accade in quegli ambienti sappiamo troppo poco. Solo di recente una ricerca a guida italiana ha permesso di avviare il monitoraggio europeo sul tema».

Questi approcci alla tutela ambientale non sono affatto incompatibili con la creazione di occupazione e ricchezza, anzi possono addirittura incentivarla. Ne è un esempio il progetto Merces, il primo riguardante il restauro degli ambienti marini: «Al pari del restauro artistico, il restauro ambientale può recuperare ciò che ha fatto di negativo l’uomo e può farlo avviando una vera filiera economica. Ma non bisogna perdere altro tempo: solo negli ultimi vent’anni, secondo le stime, abbiamo perso il 30% del capitale naturale».

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