Altro che riciclo: ecco dove finiscono i nostri rifiuti di plastica

I nostri rifiuti di plastica finiscono lungo le nuove rotte commerciali che si sono aperte dopo il bando cinese all’importazione di questi scarti
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Malesia, Turchia, Vietnam, Thailandia e Yemen. Finiscono anche qui i nostri rifiuti di plastica, lungo le nuove rotte commerciali che si sono aperte dopo il bando cinese all’importazione di questi scarti, introdotto nel 2018. Finiscono, cioè, anche in Paesi non dotati di sistemi di recupero e riciclo efficienti, in contrasto con quanto stabilito dal Regolamento europeo.
Il bando cinese, rileva Greenpeace nel rapporto ‘Le rotte globali, e italiane, dei rifiuti in plastica‘, ha pesato non poco sull’Italia che, nella classifica globale dei principali esportatori di rifiuti plastici, si colloca all’undicesimo posto: solo nel 2018, abbiamo spedito all’estero poco meno di 200mila tonnellate di scarti di plastica, un quantitativo pari a 445 Boeing 747 a pieno carico, passeggeri compresi. Per la precisione, 197mila tonnellate di plastica hanno varcato i confini italiani lo scorso anno, per un giro d’affari di 58,9 milioni di euro. Un meccanismo che, fino a una manciata di mesi fa, vedeva come partner privilegiato la Cina: prima del bando, infatti, dall’Italia quasi un rifiuto plastico esportato su due era destinato proprio agli impianti cinesi.
Oggi invece tra le principali destinazioni dei rifiuti italiani, oltre a nazioni europee come Austria, Germania, Spagna, Slovenia e Romania, i rifiuti in plastica vengono esportati verso Malesia (nel 2018 le importazioni sono aumentate del 195,4% rispetto al 2017), Turchia (+191,5% rispetto al 2017), Vietnam, Thailandia e Yemen.
Il Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno 2006, però, stabilisce che i rifiuti che escono dall’Europa possono essere esportati solo in Paesi in cui saranno trattati secondo norme equivalenti a quelle europee in merito al rispetto dell’ambiente e della salute umana. Requisito che manca a questi Paesi che di fatto stanno sostituendo il ruolo precedentemente affidato alla Cina.
Per il Sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Roberto Pennisi, “non si deve dimenticare che prima di esportare un rifiuto lo si deve sottoporre a un dato trattamento, e soprattutto si deve avere contezza del tipo di trattamento cui sarà sottoposto una volta giunto nel Paese di esportazione. In assenza di questi due requisiti, qualunque esportazione è da considerarsi illegale“.
Inoltre, da quando il governo di Pechino ha imposto il diktat all’import, si sta diffondendo un nuovo fenomeno tutto europeo: “Si tratta di un fenomeno di export via terra verso altri Paesi europei, magari Stati entrati da poco in Unione, dove i controlli sono meno accurati e si privilegia l’interesse economico al rispetto della legalità, dell’ambiente e della salute umana“.
Guardando la classifica dell’Ufficio statistico dell’Ue, resta europeo il podio degli Stati che importano gli scarti della nostra plastica, con Austria (20%), Germania (13,5%) e Spagna (9%) che in totale importano il 42,5% degli scarti plastici italiani. Negli ultimi anni si nota un aumento dell’export verso la Romania (+385% di variazione tra il 2017 e il 2018) nonché una costante rilevanza delle esportazioni di rifiuti di plastica verso la Slovenia, che lo scorso anno ha importato ben l’8% dei nostri scarti plastici, per un valore di 3,7 milioni di euro.
Per gli esperti che leggono questi numeri, significa che dopo un primo sbandamento iniziale alla chiusura delle frontiere cinesi, si sono nuovamente create le condizioni per delle esportazioni verso Oriente: quando il container non va direttamente in Malesia o Vietnam, avvengono una serie di triangolazioni tra Stati europei che fanno comunque giungere il carico in Asia. Cambia la modalità, ma siamo comunque di fronte a un traffico internazionale illecito di rifiuti.
A un anno dal bando cinese, un sistema al collasso – Il bando all’importazione di rifiuti introdotto dalla Cina nel 2018 ha riguardato anche i rifiuti plastici. Scarti di lavorazione, cascami, rifiuti industriali e avanzi di materie plastiche, da un anno sono ormai respinti dalle dogane cinesi. Un divieto che ha interessato anche Hong Kong, per lungo tempo hub d’importazione di rifiuti in plastica poi destinati in Cina. Le conseguenze? L’Occidente rischia di essere letteralmente sommerso dalla plastica. Un sistema al collasso in cui sono all’ordine del giorno interruzioni, invio di materiali riciclabili in discariche, esportazioni illegali, roghi nei depositi di rifiuti.
Nell’estate 2017, il governo di Pechino ha notificato all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc-Wto) che da gennaio 2018 avrebbe vietato l’importazione di 24 tipologie di materiali da riciclare, tra cui la plastica. Una bella doccia fredda visto che, dati Eurostat alla mano, sia nel 2016 che nel 2017, di tutti gli scarti plastici spediti fuori dall’Europa, il 42% circa è stato destinato al mercato cinese, per un valore economico di 6,4 milioni di euro e 7,8 milioni di euro rispettivamente nel 2016 e nel 2017.
Due principali criticità emerse a seguito del bando cinese: la prima, è che la maggior parte dei rifiuti di plastica oggi viene esportata in Paesi con regolamentazioni ambientali meno rigorose, specialmente nel Sud-est asiatico e in nazioni prive di una reale capacità di gestione e riciclo; la seconda è che, a livello globale, le esportazioni di materie plastiche dal 2016 al 2018 sono passate da 1,1 milioni a 500mila tonnellate al mese e gli Stati che prima esportavano grandi quantità di questi rifiuti oggi si trovano a gestire un’eccedenza di tali materiali.
Malesia, Vietnam e Thailandia sono diventate le principali destinazioni dei rifiuti in plastica globali. Tuttavia, queste nazioni, nel periodo compreso tra l’entrata in vigore del bando cinese e la metà del 2018, hanno introdotto misure restrittive alle importazioni. A quel punto, le esportazioni di rifiuti plastici a livello mondiale (la maggior parte provenienti da Stati Uniti, Germania, Regno Unito e Giappone) sono state dirette in massa verso l’Indonesia e la Turchia, che risultano ancora oggi tra i principali importatori a livello globale.

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