Alzheimer, bloccata una proteina che svolge un ruolo chiave nella malattia: risultati promettenti

Risultati clinici promettenti da un nuovo studio dei ricercatori della Lund University: "Speriamo che possano portare a futuri trattamenti per le persone con Alzheimer"
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Negli ultimi anni, è diventato sempre più chiaro ai ricercatori che la proteina galectina-3 è coinvolta nelle malattie infiammatorie del cervello. Uno studio dei ricercatori della Lund University, in Svezia, insieme a colleghi di Spagna e Regno Unito, ora dimostra il ruolo chiave svolto da tale proteina nel morbo di Alzheimer. Lo studio è stato pubblicato su Acta Neuropathologica.

Tra le altre cose, l’Alzheimer include l’accumulo di placche amiloidi fuori dalle cellule e la formazione della proteina tau all’interno delle cellule nervose. Quando il nostro sistema di difesa immunitaria scopre le placche, si attiva la reazione immunitaria del cervello. È precisamente in questo meccanismo che la galectina-3 sembra svolgere un ruolo cruciale. “Il problema è che se questa reazione infiammatoria prosegue a lungo, crea un ambiente tossico che alla fine porta alla distruzione e alla morte delle cellule nervose e alla comparsa della malattia”, ha spiegato Antonio Boza-Serrano del laboratorio sperimentale di neuro-infiammazione della Lund University, uno dei ricercatori che ha preso parte allo studio.

La proteina analizzata è prodotta dalle cellule microgliali, la cui “cura” del sistema immunitario del cervello include ripulire le proteine che si accumulano in esso. Sembra che sia richiesta la galectina-3 per attivare le cellule microgliali nel caso della formazione di placche nel cervello. “Abbiamo scoperto che questa proteina infiammatoria aumenta di 10 volte nel cervello dei pazienti deceduti con la malattia di Alzheimer e la troviamo soprattutto nelle cellule microgliali che si accumulano intorno alle placche amiloidi”, ha continuato Boza-Serrano.

La proteina è presente solo in cervelli ammalati

La galectina-3 è coinvolta anche nell’infiammazione nel caso del morbo di Parkinson e dopo un ictus. Il fatto che sia a malapena rilevabile nei cervelli sani ma che aumenti nei casi di infiammazione è positivo dal punto di vista farmacologico, secondo i ricercatori, poiché non vogliono che un farmaco influenzi altre cellule rispetto a quelle responsabili dello sviluppo della malattia. È possibile rallentare l’effetto della galectina-3 utilizzando degli inibitori che impediscono alla proteina di attivarsi durante l’infiammazione.

Abbiamo coltivato cellule microgliali in laboratorio e abbiamo aggiunto la proteina presente nelle placche dell’Alzheimer, che hanno reso le cellule molto attive dal punto di vista dell’infiammazione. Ma quando abbiamo aggiunto gli inibitori della galectina-3, le cellule microgliali sono diventate più “deboli”, meno infiammatorie”, ha spiegato Tomas Deierborg, tra gli autori dello studio e direttore della ricerca del laboratorio sperimentale di neuro-infiammazione della Lund University.

Esperimenti sui topi

alzheimerI ricercatori hanno anche studiato topi con Alzheimer ma che non avevano il gene che produce la proteina in questione. Hanno osservato che questi topi non sviluppavano tanta infiammazione quanto quelli che avevano l’Alzheimer e il gene per la proteina. “Abbiamo utilizzato un labirinto dal quale i topi dovevano uscire e abbiamo osservato che i topi con l’Alzheimer ma senza galectina-3 erano più svegli e avevano una memoria migliore” rispetto agli altri, sostengono i ricercatori.

Nonostante i risultati clinici siano promettenti, gli esperti sostengono che gli studi in cui è stata inibita la proteina sono stati condotti su cellule, mente gli studi sulla mancanza del gene per la proteina sono stati condotti sui topi. “Abbiamo dimostrato che rimuovendo la galectina-3, possiamo ridurre la quantità di placche e infiammazione nei topi, ma non abbiamo studiato se questo funziona negli esseri umani. Ci sono tutte le ragioni per continuare ad analizzare questo. Anche se è la strada è lunga, la nostra speranza è che i risultati della nostra ricerca possano portare a futuri trattamenti anche per le persone con Alzheimer”, ha concluso Deierborg.

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