Coronavirus, Ippolito: “Il vaccino non arriverà entro la fine dell’anno, forse in primavera”

Coronavirus, Ippolito: "Prima il vaccino dobbiamo provarlo senza saltare le fasi, poi, se le persone esposte al virus non si infettano, potremmo dire di averlo trovato"
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Le previsioni più ottimistiche parlano di un vaccino per la popolazione per la primavera dell’anno prossimo“: lo ha dichiarato Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani, ospite di Agorà. “Prima il vaccino dobbiamo provarlo senza saltare le fasi, poi, se le persone esposte al virus non si infettano, potremmo dire di averlo trovato. Dire che potremo cambiare la nostra vita perché prima della fine dell’anno avremo il vaccino mi sembra eccessivamente ottimistico“.
Il numero di sequenze con genoma intero ci dice che il virus è sostanzialmente lo stesso“. “Che il virus si attenui passando di soggetto in soggetto è una cosa diversa“, avverte Ippolito, ricordando che però “servono studi importanti e di lunga dimensione“.
Ieri sera avevamo 17mila sequenze in tutto il mondo e queste sequenze dicono che il virus è sostanzialmente conservato, ci sono parolai che non hanno mai visto un virus e giocano con i computer a fare modelli. Questi li ascriviamo alla categoria pagliacci“. “Non dobbiamo confondere l’attenuazione, che perde di virulenza, la differenza di potenziale trasmissibilità, la patogenicità. Ci vorranno anni prima che li scriviamo“.
Le malattie infettive non si gestiscono con le parrocchie. Si gestiscono con un modello unico, nazionale che tenga conto dei dati che cambiano giorno per giorno e noi abbiamo ancora dati poco solidi“.
Quanto ad eventuali riaperture a livello regionale “bisogna farlo in maniera programmata e con una interazione forte tra Regioni e Stato. Le malattie infettive si devono gestire con un’unica regia nazionale; non abbiamo situazioni miracolistiche, gestiamo questa epidemia come nel Medioevo, di giorno in giorno“.
Noi non abbiamo un modello di open data in Italia. Con un’epidemia come questa è indispensabile avere un modello di open data. Anche sui morti sappiamo solo quanti anni hanno ma poi se vediamo i fattori di rischio sono solo su una piccola proporzione“. “Dobbiamo abituarci a dare dati trasparenti, uguali, aperti, in tempi ragionevoli“.

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