Non tutti i morti in eccesso del 2020 sono provocati dal Coronavirus: i DATI Istat

Coronavirus, dati Istat e considerazioni: dalla pandemia al panico killer
MeteoWeb

Un po’ di nodi iniziano a venire al pettine. Il Corriere della Sera, uno degli organi di informazione più seri e accreditati d’Italia, riportando dati Istat, l’Istituto di Statistica Nazionale più affidabile d’Italia, sancisce che degli 85.620 morti in più registrati fino a fine novembre, nel trascorso anno pandemico 2020, 55.576 sono attribuibili al covid, poiché il patogeno è stato rilevato sui morti. Altri 30.048 non rientrano nei malati covid. Nell’aggiornamento successivo, poi, comprensivo anche dei morti di dicembre, lo stesso ISTAT dichiara ufficialmente che le morti in eccesso nel 2020 sono state 100.526, ma quelle attribuibili al covid 75.000 circa. Questo è il dato enigmatico che emerge a fine anno e che il corriere definisce misterioso. E, guarda caso, se i numeri fossero intorno ai 60/70 mila morti, la percentuale di mortalità incidente in Italia rientrerebbe nel range medio mondiale. Invece, essa è palesemente in eccesso, nella misura di 25.000 circa e di questo eccesso di morti in Italia si è discusso e si sta tanto discutendo in tutto il mondo. Dunque, è davvero difficile pensare che questi 25.000 siano morti per covid, supponendo che fossero state persone in condizioni gravi avendo contratto il patogeno e che non avessero segnalato la loro condizione. Un malato covid con sintomi gravi segnala la sua situazione, perché teme la morte, essendo essa stata spaventosamente annunciata come conseguenza frequente del patogeno. Un malato covid senza sintomi e che quindi non segnala la sua situazione al fine di poter appurare se avesse il patogeno, non muore, perché non versa in condizioni gravi. Viene da sé che i 25.000 in più deceduti nulla avessero a che fare con il covid. Sono, invece, morti per effetti collaterali al covid. Cioè si tratta, più verosimilmente, come riscontrato da migliaia di segnalazioni e testimonianze di famigliari, di malati in cura per patologie tumorali o malattie cardiocircolatorie, diabetici, infartuati, che sono morti poiché riluttanti ad andare in ospedale per paura di contrarre il patogeno così spaventosamente dichiarato killer. Se queste persone si fossero recate normalmente in ospedale, se avessero ricevuto le normali cure loro riservate normalmente, se non vi fosse stato tutto il caos legato al covid, se gli ospedali non avessero trascurato tutte le altre patologie dedicandosi esclusivamente alla cura covid, queste persone, nel numero di 25.000 almeno, non sarebbero morte. Altra evidenza da fare è che i 75.000 morti accertati con covid, non è affatto detto che siano morti per il covid. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, si è trattato di persone che avevano già una o più patologie pregresse, anche gravi e nulla esclude che siano morte per quelle patologie e non direttamente per il covid. Tuttavia, volendo anche attribuire l’unica responsabilità di morte al patogeno, il numero di 75.000 sarebbe senz’altro più in linea con il trend di morti in crescendo dal 2015 a oggi, in virtù dei cambiamenti climatici che stanno deteriorando i bassi strati e stanno rendendo più aggressivi i patogeni stagionali. Ricordiamo, infatti, che già nel 2015 vi è stato un precedente con circa 50.000 morti in più rispetto al quinquennio prima; nel 2017 oltre 30.000 in più rispetto al quinquennio precedente. Dunque, numeri alla mano ancora più evidenze per un’attenzione nei confronti di una esasperazione climatica da ciclo caldo, iniziata proprio nel 2015 e che, a sua volta, sta portando anche una maggiore aggressività di patogeni in grado di arrecare più morbosità e anche più morti nel mondo intero, ma niente a che vedere con un patogeno killer. L’incidenza di mortalità continua a essere bassa, 0,1/0,2%  e non compatibile con un’azione virale killer, piuttosto con un patogeno stagionale appena un po’ più aggressivo. Naturalmente all’esasperazione in termini di aggressività dei patogeni, conseguente al cambiamento climatico, va affiancata l’evidenza dell’ esasperazione degli inquinanti nei bassi strati atmosferici, conseguente sempre al cambiamento climatico. Alte pressioni più ricorrenti e insistenti nei mesi invernali e autunnali, deteriorano i bassi strati anche in termini chimici, favorendo concentrati di particolati fini, assolutamente dannosi per la salute. Per fortuna, queste concentrazioni di materiale chimico non sono uniformemente distribuite sui vari territori delle aree temperate, dove l’azione umida e le temperature più miti nella stagione fredda rendono i bassi strati certamente più deteriorati. Vi sono aree che si prestano di più, per ragioni orografiche e microclimatiche alla concentrazione di particolati chimici, e aree che si prestano meno. E questo spiega anche la territorialità di incidenza del patogeno stagionale: infatti ci sono aree dove la morbosità e i morti sono anche del 200/300% in più e aree dove l’incidenza dei morti è fiacca o addirittura sotto la media degli anni precedenti.  D’altronde, ci sono studi recenti e comprovati i quali dimostrano che sulle aree dove incide un alto tasso di inquinamento per particolato fine, la morbosità legata al patogeno virale e anche le morti conseguenti incidono enormemente di più.  Il professor Mauro Minelli, medico e accademico italiano, specialista in Allergologia e Immunologia clinica ha spiegato, con nuovi dati alla mano, che il PM 2,5 scatena una reazione nelle persone più esposte all’inquinamento mettendo in moto il recettore ACE2 per proteggerle dalle micro-particelle che, però, diventa un cavallo di Troia perché è la “chiave che fa entrare il coronavirus nelle cellule umane.  A questi risultati erano arrivati prima, nel 2018, anche studi cinesi. Nella sostanza, secondo questi studi accreditati, lì dove sono presenti più particolati fini, specie PM2,5, PM10, ma anche altri inquinanti come l’NO2, biossido di azoto, il nostro organismo, per difendersi, attiva un recettore, l’ACE2. Esso è un enzima che ci difende dai particolati, ma è anche la chiave di ingresso del coronavirus nel nostro organismo. Si sa, infatti, dai tempi della SARS, che i coronavirus sfruttano questi recettori per farsi strada nell’organismo umano. Poichè tale enzima non si trova soltanto nell’epitelio polmonare, ma anche a livello cardiaco, nell’intestino, nei reni e nei vasi sanguigni, il virus ha una facile penetrazione in tutti questi organi e apparati e spesso può dimostrarsi devastante in termini di effetti. Ma tutto dipende dalla quantità di recettori ACE2 presenti nell’organismo: più ve ne sono e più il virus penetra. Il recettore ACE2, naturalmente, è più presente negli organismi che vivono in ambienti inquinati, meno, decisamente meno in quelli che vivono in ambienti dove la presenza di particolati è minima. Ecco la spiegazione dell’incidenza territoriale della malattia e della differenziazione eclatante circa l’incidenza della mortalità. Il virus di per sè può colpire tanti, milioni di persone, ma se non trova le porte per entrare negli apparati cardini dell’organismo, non produce danno importante. Lo produce se ha i favori per incunearsi negli apparati cardini. Si decida, pertanto, seguendo questi criteri scientifici, nell’apportare  provvedimenti restrittivi in funzione di una territorialità scientificamente dimostrata di incidenza del patogeno e dei rischi ad esso connessi, e non si continui a vessare tutti, indistintamente, comportando danno nel danno. Alla luce di queste considerazioni, più che un vaccino, ( scoperta medica assolutamente di grande valore, ma efficace in particolari fattispecie e solo dopo anni di sperimentazioni) l’approccio fondamentale deve essere nei confronti dell’inquinamento, combatterlo e ridurlo al minimo possibile, inoltre pianificare comportamenti sociali compatibili con il cambiamento climatico e ubicare i centri residenziali su aree a meno impatto ambientale. Infine, un altro rilievo, questo di ordine prettamente medico-scientifico: con tutto il panico disseminato, se ci si ammala di una normale bronchite stagionale, stando agli studi di una disciplina medico-scientifica che va sotto il nome di Psico Neuro Endocrina Immunologia, PNEI, si possono creare condizioni polmonari talmente gravi (e per di più effettive, non immaginarie) indotte dal panico, quindi dalla psiche e non dalla effettiva malattia, da poter indurre significativi aggravamenti dello stato fisico. E ciò spiegherebbe anche condizioni di gravità in persone apparentemente sane colpite dal virus, ma con sintomi, la cui reazione di tipo psichico-emotivo può essere stata così estrema, per la paura di morire, da indurre un aggravamento effettivo e drammatico di condizioni che, magari, altrimenti, avrebbero avuto un decorso normale e benigno. I polmoni, infatti, sono gli organi più sensibili alle influenze di natura psichica. Dunque, il panico fattore di rischio aggiunto in questa crisi sanitaria? Senz’altro si e sotto innumerevoli sfaccettature. 

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