L’inizio del mese di maggio rappresenta, per centinaia di persone che tentano di raggiungere la cima dell’Everest, il periodo più propizio.
L’Everest ha diversi nomi: Chomolangma, Qomolangma, Sagaramatha (rispettivamente in tibetano, cinese e nepalese) ed è, come noto, la montagna più alta del mondo, situata al confine tra Cina e Nepal.
Così chiamato in onore di Goerge Everest, che al servizio della corona britannica, lavorò per molti anni come responsabile dei geografi britannici in India, l’Everest misura più di 8800 metri ed in ogni stagione di arrampicata, tanti sono morti nel tentativo di raggiungere l’agognata vetta. La voglia di primeggiare è davvero forte: i primi a conquistare l’Everest, sono stati Sir Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay, il 29 maggio 1953. Da allora in poi, tanti i record: il primo parapendio dalla vetta dell’Everest, il primo a scendere l’Everest con gli sci, il primo non vedente a scalarlo. Nel 2013, poi, l’insolito record raggiunto dallo scalatore giapponese Yuichino Miura che, ottantenne e con ben 4 operazioni al cuore e il bacino rotto nel 2009 mentre sciava, è diventato la persona più anziana a raggiungere la cima del Monte Everest. Tra i pericoli affrontati dagli scalatori: la mancanza di ossigeno, il rischio cadute, freddo, ghiaccio, vento e tempeste.
Per raggiungere la vetta, potrebbero incorrere nel rischio mortale del ghiaccio in caduta del ghiacciao Khumbu e i crepacci potrebbero inghiottire senza preavviso gli arrampicatori. A volte il corpo non può essere recuperato, mentre in altri casi i cadaveri emergono anni dopo. Furono in realtà George Mallory e il suo compagno Andrew Irvine i primi, nel 1924, a tentare di scalare l’Everest, ma la loro spedizione ebbe un tragico epilogo: il corpo di Mallory venne ritrovato nel 1999, mentre non fu scoperta nessuna traccia di Irvine ed non è chiaro se siano morti durante la discesa o nel tentativo di raggiungere l’ambita cima. Ma la follia umana non conosce limiti: anni dopo, Maurice Wilson, credendo che i veri problemi del pianeta potessero essere risolti attraverso il digiuno e la fede in Dio, nonostante fosse inesperto in alpinismo e avesse poca esperienza di volo, riuscì a volare dalla Gran Bretagna all’India, entrando in Tibet e arrampicandosi a 6920 metri sul monte Everest; tuttavia morì nel suo tentativo e il suo corpo venne rinvenuto l’anno successivo da una spedizione britannica.
Ma l’Everest è noto a tutti per la sua “Death Zone”. A definirla “Zona della Morte” è stato per primo Reinhold Messner, il “re degli ottomila”, colui che ha scalato tutti i 14 giganti del mondo. Si tratta della zona dove l’ossigeno diventa a tal punto rarefatto, da provocare cambiamenti anche nella fisiologia umana; quella in cui il sangue si fa più denso, la respirazione difficoltosa, si distruggono i neuroni . Anche il terzo uomo ad aver scalato i 14 giganti, Ehrart Loretan, la descrive come una zona dove <<più procedi, più tutto diventa uguale>>; si va avanti in uno stato tra la sonnolenza e il sogno ad occhi aperti>>. Il pericolo maggiore è dato dalla mancanza di ossigeno e basta davvero una sciocchezza per morire. La vetta che più si avvicina a questa nozione di morte è l’Everest, ma anche il Kanchenjonga e il K2, le tre montagne più alte del mondo.
Varcando la soglia degli 8000 metri, ecco la zona della morte, che non risparmia nessuno: anche lo scalatore più esperto, infatti, può morire per un edema cerebrale o polmonare, per una caduta, per una frana di ghiaccio e pietre, per un repentino cambio di tempo. Si dice che scalare l’Everest sia innanzitutto una questione di resistenza al dolore, L’Everest o Sagarmatha (Dea del Cielo), non comporta difficoltà tecniche nella salita e ciò è dimostrato dal fatto che negli ultimi 30 anni, circa 4000 persone sono riuscite a raggiungere la sua vetta; mentre, purtroppo, buona parte di esse, sono rimaste là. Dai 6000 metri si passa accanto a corpi pietrificati dal gelo, a volte interi, lasciati là per esplicita volontà dei parenti, anche perché riportare un cadavere a valle è un impegno gravoso e rischioso. Dall’idea della mancanza di limiti, dalle possibilità di far tutto, nasce però un tipo di alpinismo aberrante. Alcune organizzazioni, portano gente in montagna solo per soldi, spingendola al di là dei loro limiti umani: caricano in spalla una bombola d’ossigeno, mettono su una pista già battuta, col rischio che forti ed improvvise raffiche di vento li spazzino via per sempre.
Per salire l’Everest ci vogliono due mesi e molti dollari: ci si affida agli Sherpa scalatori, indigeni amanti della loro terra, che accompagnano i clienti in vetta, spesso li portano di peso, spesso li salvano dalla morte, spesso sono loro a lasciarci la pelle. Sull’Everest si battono record, si stabiliscono molti primati, ma si muore anche. La storia dell’alpinismo è piena di episodi scioccanti, come quelli degli scalatori lasciati morire abbandonati e assiderati perché la spedizione che li incontrava non aveva tempo da perdere e soccorrendoli, non sarebbe riuscita ad arrivare in vetta. La storia dell’alpinismo è piena di ragioni economiche, sponsorizzazioni, fame di gloria, ma c’e’ gente animata, per fortuna, da altri intenti, come, ad esempio, dal desiderio di arrivare in vetta spinta dalla ricerca dell’ignoto, per poi puntare, con amore, verso un’altra cima.