Krakatoa 1883: il primo tsunami “globale” dell’era moderna

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Una delle più grandi catastrofi naturali degli ultimi 200 anni è relativa alla celebre eruzione del vulcano Krakatoa (o Krakatau in indonesiano) avvenuta nel 1883. Questo disastro fu accompagnato da uno tsunami che in pratica attraversò, sia pure in maniera lieve, tutti i mari del mondo. Riviviamo l’evento grazie al geologo Giampiero Petrucci.

I luoghi. Giava e Sumatra, le due isole principali dell’Indonesia, sono separate da un braccio di mare, lo Stretto della Sonda, che in pratica mette in comunicazione il Mar di Giava con l’Oceano Indiano. Lo Stretto non è di facile navigazione causa fondali poco profondi, secche, forti correnti ed oggi anche numerose piattaforme petrolifere. Da un punto di vista geologico l’area è tra le più “turbolente” del pianeta: passa di qui infatti il celebre “anello di fuoco”(“ring of fire” in inglese), la cintura che avvolge l’intero Oceano Pacifico ed in corrispondenza della quale, causa gli scontri tra le placche tettoniche, si sviluppano grandi terremoti e violente eruzioni (Sanriku, la costa degli tsunami; Cascadia 1700: come lo “tsunami orfano” ha ritrovato il padre). Nell’Oceano Indiano, al largo dell’Indonesia, la cosiddetta “fossa di Giava” (“Giava Trench”) rappresenta il punto focale di questo “anello” e corrisponde grosso modo alla zona in cui la placca “indo-australiana” va in subduzione al di sotto della placca eurasiatica.

Il cosiddetto “anello di fuoco” che circonda l’intero Oceano Pacifico. Sulla sinistra della cartina la “fossa di Giava” ed il Krakatoa, teatro della grande catastrofe nel 1883 (da Wikipedia)
Il cosiddetto “anello di fuoco” che circonda l’intero Oceano Pacifico. Sulla sinistra della cartina la “fossa di Giava” ed il Krakatoa, teatro della grande catastrofe nel 1883 (da Wikipedia)

Qui la natura ha scatenato violente catastrofi sin dai primordi dell’umanità: il “Libro dei Re”, uno dei testi più antichi della tradizione giavanese, è ricco di leggende intorno a isole scomparse, montagne distrutte ed onde capaci di sommergere interi villaggi. Il teatro principale di questi eventi è stato proprio lo Stretto della Sonda ed in particolare l’isola vulcanica di Krakatoa, da alcuni detta anche Rakata, generando in verità gran confusione tra i due termini. Qui già nel V secolo d.C. è attestato lo sviluppo di una grande eruzione che probabilmente generò enorme devastazione ma di cui però non si hanno testimonianze dirette. Più certo che la stessa isola venga interessata da un altro evento eruttivo tra il 1680 ed il 1681: un fenomeno importante, con emissione di prodotti piroclastici come pomici e cenere. Poi però, per duecento anni, il vulcano non dà segni particolari.

L’isola di Krakatoa (o Rakata) prima dell’eruzione, in un disegno tratto dall’opera del geologo olandese Rogier Verbeek, il primo a studiare nel dettaglio la catastrofe, essendo tra l’altro residente sull’isola di Giava al tempo del disastro
L’isola di Krakatoa (o Rakata) prima dell’eruzione, in un disegno tratto dall’opera del geologo olandese Rogier Verbeek, il primo a studiare nel dettaglio la catastrofe, essendo tra l’altro residente sull’isola di Giava al tempo del disastro

L’eruzione. Le eruzioni trasformano pesantemente la morfologia del paesaggio, caratterizzato nel XIX secolo da tre isolette: oltre alla stessa Krakatoa troviamo Lang e Verlaten. Si suppone che le tre terre emerse rappresentassero i bordi di un’antica caldera, retaggio di precedenti eventi eruttivi di grande potenza. L’edificio vulcanico è complesso e possiede tre coni e crateri principali, posti all’incirca in direzione nord-sud e chiamati rispettivamente Perboewatan, Danan e Rakata (alto circa 800 metri s.l.m.). Nei primi mesi del 1883 la terra inizia a tremare: sono i cosiddetti “tremori vulcanici”, spesso precursori di grandi eruzioni. Alla fine, il 20 maggio 1883 il vulcano erutta: dai tre crateri escono vapori, pomici, ceneri e si forma una densa colonna pliniana, così detta perché descritta per la prima volta da Plinio il Giovane in riferimento all’eruzione che distrusse Pompei nel 79 d.c. e tipica del Vesuvio (L’eruzione del Vesuvio nel 1631: un evento che potrebbe ripetersi, ma quando?), alta qualche km.

L’eruzione del Krakatoa in una litografia dell’epoca. Il rombo dell’esplosione principale venne avvertito dal Madagascar all’Australia (da Wikipedia)
L’eruzione del Krakatoa in una litografia dell’epoca. Il rombo dell’esplosione principale venne avvertito dal Madagascar all’Australia (da Wikipedia)

La situazione non muta fino ad agosto quando si entra nella fase parossistica. Si aprono altri crateri, più piccoli, e l’emissione dei prodotti piroclastici aumenta, con la colonna che supera abbondantemente i dieci km di altezza, oscurando il sole per molti km all’intorno. Nel pomeriggio del 26 agosto, ora locale, si sviluppa la prima grande esplosione che provoca un’ulteriore apertura del cratere di Perboewatan, con crollo parziale dei fianchi del vulcano. Per diverse ore si alternano fasi di stasi e parossismi eruttivi (almeno due), finchè intorno alle ore 10 del 27 agosto si sviluppa l’ultima terribile esplosione: la colonna pliniana si alza per un’altezza di diverse decine di km. Si calcola che l’indice di esplosività (detto VEI, Vulcanic Explosivity Index) abbia raggiunto il valore 6, il più alto mai registrato negli ultimi 200 anni: secondo i vulcanologi solo l’eruzione del Pinatubo, nel 1991, è paragonabile a questa come intensità. Pare che il rombo legato a questa fase parossistica di Krakatoa venga addirittura avvertito dal Madagascar all’Australia. La violenza dell’esplosione provoca il collasso dell’edificio vulcanico: i due/terzi dell’isola franano violentemente in mare ed i detriti vengono sparsi sui fondali per circa dieci km di raggio. Le ceneri invece vengono ritrovate fino a 1800 km di distanza dal vulcano. Secondo diverse testimonianze, i flussi piroclastici attraversano lo Stretto, giungendo fino a Ketimbang ed uccidendo numerose persone. Le particelle ancora più fini eruttate, una specie di aerosol, rimangono a lungo nella stratosfera e viaggiano per tutto il mondo, generando tra l’altro per diversi giorni tramonti molto particolari, colorando il cielo di un’affascinante luce rossastra dalla quale pare aver tratto ispirazione il pittore Munch per il suo celebre Urlo. La mattina del giorno 28, dopo un’ulteriore fase esplosiva sottomarina, sull’isola è tutto finito. Il vulcano dà un ultimissimo segnale il 17 ottobre, quando dal mare emerge una colonna di fango che si alza per alcuni metri, quasi uno sbuffo di una balena, una specie di “ultimo respiro” del Krakatoa. Il disastro, che ricorda quanto accaduto a Santorini (Santorini, l’eruzione e lo tsunami: le onde di maremoto arrivarono anche in Sicilia!), è terribile, tra i più catastrofici di tutta la storia. Fortunatamente, l’isola è praticamente disabitata.

Lo Stretto della Sonda ed i luoghi della catastrofe. L’isola di Sebesi fu totalmente distrutta dallo tsunami. I numeri bianchi rappresentano le altezze delle onde nei luoghi corrispondenti. Il massimo run-up fu registrato a Merak, con circa 35 metri (da Googlemaps, modificata)
Lo Stretto della Sonda ed i luoghi della catastrofe. L’isola di Sebesi fu totalmente distrutta dallo tsunami. I numeri bianchi rappresentano le altezze delle onde nei luoghi corrispondenti. Il massimo run-up fu registrato a Merak, con circa 35 metri (da Googlemaps, modificata)

Lo tsunami. Ma un evento di tale portata provoca effetti devastanti nel circondario, e non solo. Si tratta probabilmente, insieme a Santorini, del miglior esempio di sorgente tsunamigenica provocata da eruzioni, frane e collasso di un’isola vulcanica. Si genera infatti uno tsunami, anzi diversi tsunami, come hanno accertato gli studiosi, i quali hanno sviluppo ed intensità diversi a seconda della fase eruttiva da cui sono provocati. Inizialmente gli tsunami non risultano molto intensi, anche perché le onde posseggono periodi brevi e lunghezze limitate: i run-up si mantengono intorno a 1-2 metri e l’intensità si attenua rapidamente. Probabilmente perché le onde sono originate soprattutto da piccole esplosioni freatomagmatiche sottomarine, legate alla fuoriuscita di gas oppure da flussi piroclastici che raggiungono il mare. Sembra che frane e subsidenza non incidano più di tanto in questa situazione. Gli tsunami dunque rimangono confinati in un ambito ristretto e possono essere definiti a carattere locale. In questa fase, nel tardo pomeriggio del giorno 26 agosto, vengono infatti colpiti i villaggi più vicini all’isola: ad Anjer e Merak (sull’isola di Giava) vengono danneggiati porti ed imbarcazioni ma le vittime sono rare. La mattina seguente, quando le esplosioni diventano più forti, le onde si ripetono su queste due cittadine, stavolta con altezze e devastazioni maggiori. Verso le ore 7.30 lo tsunami raggiunge anche Ketimbang (oggi Katibung) e Teluk Betung dove parecchie imbarcazioni rompono gli ormeggi e vengono trascinate via. Infine, intorno alle 10 della mattina, Krakatoa esplode definitivamente e l’isola si frantuma, probabilmente a causa dell’interazione tra acqua marina e camera magmatica che rende particolarmente devastante questa fase dell’eruzione. Lo tsunami principale, quello definibile globale per dimensioni ed estensione, nasce qui. Si sommano alcuni effetti: per quanto la maggior parte dell’energia esplosiva venga convogliata verso l’alto, si sviluppano estesi flussi piroclastici che piombano velocemente in mare, in particolare sul lato nord-orientale dell’isola. Nel frattempo l’enorme esplosione produce ciò che viene chiamato “forte shock atmosferico”, una specie di onda d’urto che si riverbera in tutte le direzioni, interagendo col mare, qualcosa di simile a ciò che succede con i meteotsunami (I Meteo-Tsunami: le poco conosciute, ma sempre più frequenti, onde anomale di “ultima generazione”).

I tempi di arrivo delle onde generate dall’eruzione nell’Oceano Indiano. Lo tsunami raggiunge Ceylon nel giro di cinque ore, la Penisola Arabica in circa 10 ore: ma i run-up sono comunque limitati e i danni poco consistenti. Le onde viaggiano molto più lentamente verso oriente: impiegano circa due ore e mezzo per arrivare a Djakarta (da NOAA e Wikipedia)
I tempi di arrivo delle onde generate dall’eruzione nell’Oceano Indiano. Lo tsunami raggiunge Ceylon nel giro di cinque ore, la Penisola Arabica in circa 10 ore: ma i run-up sono comunque limitati e i danni poco consistenti. Le onde viaggiano molto più lentamente verso oriente: impiegano circa due ore e mezzo per arrivare a Djakarta (da NOAA e Wikipedia)

La fuoriuscita violenta di gas al di sotto del livello del mare provoca un cono d’acqua con altezze di circa 100 metri. Ma il fattore principale, la causa che genera il disastro vero e proprio, è il collasso della parte sommitale del vulcano: i fianchi improvvisamente cedono e cadono in mare. Il concatenarsi di questi eventi, probabilmente nel giro di pochi minuti, comporta lo sviluppo di un megatsunami.

Gli effetti “globali”. Le onde raggiungono subito la vicina isola di Sebesi, posta a nord-est del vulcano, annientando ogni cosa: non sopravvive nessuno degli abitanti. Dopo circa mezz’ora lo tsunami raggiunge Teluk Betung, sull’isola di Sumatra, dove i run-up si aggirano sui 20-22 metri: una nave da guerra olandese viene trasportata sulla terraferma per quasi tre km, finendo in mezzo alla giungla. Nel giro di un’ora vengono nuovamente colpiti, per la terza volta, Anjer e Merak: nel primo caso i run-up toccano i 10 metri (ed i morti sono migliaia) ma è nella seconda cittadina che si sviluppa la distruzione maggiore. Qui infatti le onde arrivano fino a 35 metri di altezza, forse 40. Il ritrovamento sulla spiaggia di enormi blocchi di corallo, pesanti decine di tonnellate, testimonia la terribile violenza del fenomeno. Nello Stretto della Sonda l’altezza delle onde, legata come sempre in maniera fondamentale alla batimetria dei fondali ed alla morfologia costiera, si mantiene tra i 15 (Isola Princess) ed i 25 metri (Ketimbang): la velocità dello tsunami non sembra invece elevata, data la profondità relativa dei fondali. Tra i villaggi completamente distrutti anche Sirik e Tyringen, sulla costa giavanese. Lo tsunami entra quindi nel Mar di Giava dove però la sua potenza si affievolisce: in due ore e mezzo arriva anche fino a Djakarta (allora chiamata ancora Batavia), con run-up di due metri e mezzo, ma danni sostanzialmente contenuti, almeno rispetto allo Stretto della Sonda. Spostandosi verso est, le onde perdono progressivamente vigore al punto che a Surabaya vengono registrate oscillazioni di pochi centimetri. L’Indonesia è sconvolta, con effetti che ben abbiamo imparato a conoscere col disastro del 2004. Il conto dei danni è terribile: 295 località subiscono forti devastazioni, i morti ufficiali sono 36.417, anche se probabilmente la cifra finale oscilla intorno ai 40mila.

Oggi l’isola di Krakatoa è molto più piccola rispetto al 1883. Nel 1927 è sorto dalle acque Anak, “il figlio di Krakatoa”, un cono vulcanico che potrebbe in futuro provocare un’altra grande eruzione (da USGS e wikipedia)
Oggi l’isola di Krakatoa è molto più piccola rispetto al 1883. Nel 1927 è sorto dalle acque Anak, “il figlio di Krakatoa”, un cono vulcanico che potrebbe in futuro provocare un’altra grande eruzione (da USGS e wikipedia)

La catastrofe però, ben diversamente da quanto accaduto nel 2004, è geograficamente limitata alla sola Indonesia. Allora perché si parla del primo tsunami “globale” dell’era moderna? Perché le onde comunque, per quanto non generate da un forte terremoto e benchè dotate di breve periodo e piccole lunghezze, percorrono l’intero Oceano Indiano. Alle 21, ora locale, dopo circa 7 ore dall’ultima eruzione di Krakatoa, il mare si ritira a Bombay, in India, per poi tornare sulla riva ma senza creare particolari problemi. Danni maggiori invece a Ceylon, oggi Sri Lanka, dove il run-up sfiora i 2 metri e si registra pure una vittima.

Le onde, o comunque le oscillazioni di qualche decimetro, inoltre vengono registrate anche nell’intero Oceano Indiano, a Mauritius (60 centimetri) come alle Seychelles, ma anche in Sud Africa (dove arrivano pure ingenti quantitativi di pomici eruttate da Krakatoa), ad Aden (sulla Penisola Arabica, circa 12 ore dopo l’inizio dello tsunami), alle Hawaii, a San Francisco, in Alaska, in Nuova Zelanda (1.8 metri ad Auckland), perfino nel Canale della Manica e nel porto francese di Le Havre, a 16mila km di distanza. Però, a conti fatti, qualcosa non torna. Gli scienziati notano diverse incongruenze tra i tempi di arrivo reali e quelli stimati dai calcoli idrodinamici. Appare inoltre alquanto strano che le onde marine siano riuscite, in un certo senso, a “scavalcare” certi ostacoli geografici come le numerose Molucche o la Nuova Guinea, per approdare fin sulle coste americane e addirittura in Europa. La spiegazione è una sola: le oscillazioni rilevate, peraltro limitate a pochi decimetri, non sono dovute allo tsunami propriamente detto. La causa va ricercata nell’atmosfera, nello shock di pressione provocato dalla fortissima esplosione: in sostanza, una specie di onda d’urto “globale” che ha interagito con la superficie del mare fino a generare le oscillazioni. Ecco dov’è la globalità di questo disastro, definito a suo tempo “la catastrofe del secolo”. Partite da una minuscola isola indonesiana, di cui nessuno aveva mai sentito parlare, le onde marine e (soprattutto) atmosferiche, hanno viaggiato per migliaia di km, acquisendo una dimensione planetaria e facendo entrare Krakatau nella storia catastrofistica mondiale.

Oggi a Krakatau il paesaggio è nuovamente cambiato. Nel 1927 è nata infatti una nuova isola: improvvisamente, un po’ come accaduto nel Canale di Sicilia con l’isola Ferdinandea nell’Ottocento (Isole emerse e poi scomparse: l’affascinante storia di Ferdinandea, il vulcano che è rimasto nel cuore dei Siciliani), è emersa una nuova terra. Il vulcano s’è risvegliato ed è nato Anak Krakatau, “il figlio di Krakatau”, un cono vulcanico che poco a poco è cresciuto, in maniera lenta ma costante. Oggi è ancora là, alto circa 300 metri s.l.m. ed ogni tanto sbuffa, quasi a ricordare la forza irrefrenabile della natura. Nessuno può prevedere quando, ma prima o poi potrebbe diventare potente come il “padre” ed allora, forse, avremo un’altra catastrofe globale.

BIBLIOGRAFIA

  • G. Pararas-Carayannis, Near and Far-Field Effects of Tsunami Generated by the Paroxysmal Eruptions, Explosions, Caldera Collapses and Massive Slope Failures of the Krakatau Volcano in Indonesia on August 26-27, 1883, Science of Tsunami Hazards, Vol. 21, n. 4, pp. 191-201, 2003
  • Dudley W., M. Lee, Tsunami, Edizioni Piemme, 2000
  • www. drgeorgepc.com
  • www. ngdc.noaa.gov
  • www.wikipedia.org/
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