“E’ una ricerca di grande valore, che aggiunge una tessera al puzzle ‘rompicapo’ che è l’impianto dell’embrione umano. Mi congratulo con gli autori, ma penso che non possa essere un’acquisizione che ci consente di dire che ‘il caso è chiuso’. Il bilancio fra qualità di embrioni ed endometrio e il dialogo possibile fra questi due rimane ancora un problema aperto”. A commentare con l’Adnkronos Salute la notizia dello studio olandese pubblicato su ‘Scientific Reports’, in cui si descrive la possibilità di eseguire un test genetico per capire se la fecondazione assistita porterà a una gravidanza, è Eleonora Porcu, responsabile del Centro di sterilità e Procreazione Medicalmente Assistita del Policlinico S.Orsola-Malpighi di Bologna. I ricercatori hanno messo in evidenza che ad avere un ruolo di primo piano nella buona o nella cattiva riuscita della fecondazione assistita c’è l’espressione di un gene a livello dell’endometrio.
“Se la prosecuzione della ricerca sarà finanziata, come credo perché molto interessante – spiega Porcu – questo studio potrebbe consentire di impiegare un eventuale test genetico fra qualche anno nei principali centri specializzati, insieme agli altri esami che vanno effettuati prima di intraprendere la strada della Pma. Rappresenta un passo in avanti perché identifica ed ‘etichetta delle nuove variabili, e potrebbe essere una valido strumento diagnostico-prognostico, utilizzabile di routine”.
“Chi fa ricerca in questo campo – dice però la scienziata – è destinato a percorrere strade sempre nuove per cercare di capire perché nella donna l’impianto dell’embrione sia così difficile. Siamo una specie a bassa fertilità e il punto sostanziale è la difficoltà di attecchimento dei nostri embrioni, a causa di anomalie genetiche molto frequenti, anche non legate a particolari malattie: in generale la specie umana produce molte volte embrioni che non si impiantano o che vengono poi rigettati. C’è quindi una centralità dell’embrione, alla base della riuscita o del fallimento della fecondazione assistita”.
“Non abbiamo mai escluso il ruolo dell’endometrio – aggiunge – ci deve cioè essere ‘terreno fertile’ per l’attecchimento, e ci sono condizioni in cui questo tessuto non cresce o è troppo sottile. L’endometrio ha un ruolo importante, quindi, ma dire che siamo riusciti a identificare un fattore che certamente ci consente di enucleare una categoria di pazienti con quel problema, che quindi avranno una prognosi negativa o severa nei confronti di possibile impianto, mi sembra ancora un po’ difficile”.
“Quando c’è un fallimento ripetuto e la donna è di età avanzata – evidenzia Porcu – si tende a ‘dare la colpa’ alla scarsa qualità degli ovociti e non all’endometrio. E in linea di massima si tende a proporre l’ovodonazione, che rappresenta comunque una sconfitta per la scienza, è quasi un ‘pezzo di ricambio’ e non soluzione reale del problema. Altri indirizzi sono la diagnosi preimpianto per valutare più in profondità gli embrioni che al microscopio sembrano di alta qualità, per capire se hanno anomalie tali da essere quasi tutti incompatibili con l’impianto.
Insomma, sintetizza l’esperta, “ci si muove in diverse direzioni, ma senza avere ancora oggi una strategia vincente in assoluto. D’altro canto la riproduzione umana è un rompicapo e per quanto si sia riusciti a migliorare alcune cose, l’aspetto genetico dell’evoluzione delle cellule dell’embrione, ma anche dell’endometrio, sono una sfida. Stiamo facendo passi in avanti, ma non bisogna cedere a trionfalismi: sono in atto sforzi straordinari per poter riuscire a dare alle coppie un bambino sano il più frequentemente possibile, però non possiamo più di tanto modificare i sentieri predisposti per la nostra specie e non riusciremo mai ad avere tantissimi bambini, se non privilegiando modificazioni sociali, avendo cioé figli da giovani, e stili di vita”, conclude.