Greenpeace pubblica i dati – prodotti da ISPRA su committenza di ENI – sulla contaminazione ambientale in campioni di cozze raccolti intorno a piattaforme offshore localizzate in Adriatico e di proprietà della stessa ENI: contengono metalli pesanti e idrocarburi. Una parte delle cozze vendute in Italia viene raccolta sui piloni di piattaforme offshore e per questo Greenpeace chiede all’ARPA Emilia Romagna quali garanzie esistano sull’assenza di contaminazione nelle cozze “da piattaforma” immesse in commercio. I dati raccolti da ISPRA per conto di ENI documentano la presenza di sostanze pericolose nelle cozze raccolte su 19 piattaforme operanti lungo le coste romagnole: metalli pesanti (mercurio, cadmio, piombo e arsenico), benzene e altri idrocarburi policiclici aromatici.
All’allarmante quadro ambientale, descritto nel rapporto “Trivelle fuorilegge” di Greenpeace, si aggiunge un ulteriore elemento di preoccupazione perché, in base a quanto si evince dal sito di ENI, da più di vent’anni le cozze presenti sulle piattaforme vengono regolarmente raccolte da alcune cooperative romagnole di pescatori e successivamente commercializzate. Queste cozze coprirebbero il 5 per cento della produzione annuale della Regione Emilia Romagna. Solo nel 2014 sarebbero stati immessi sul mercato italiano 7 mila quintali di cozze “da piattaforma”. Greenpeace non possiede dati sulle produzioni di cozze riferibili alle singole piattaforme. Tuttavia, l’area dove sono situati gli impianti che ENI indica come sede di prelievo commerciale di mitili si sovrappone a quella dove operano alcune delle piattaforme oggetto del rapporto di Greenpeace. «Molte delle sostanze rinvenute da ISPRA nelle cozze raccolte presso le piattaforme di ENI sono note per essere cancerogene», afferma Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace. «Sostanze come il cadmio e il benzene sono inserite nel gruppo 1 dello IARC (l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro delle Nazioni Unite), ovvero tra le sostanze il cui effetto cancerogeno sull’uomo è certo».
D’altra parte, ENI dichiara che “a salvaguardia di quest’area marina [quella in cui sono raccolte le cozze] vengono effettuati monitoraggi periodici da parte delle Capitanerie di Porto, delle ARPA competenti, di ISPRA e CNR-ISMAR”. Greenpeace ha quindi chiesto all’ARPA Emilia Romagna informazioni sui dati dei monitoraggi delle cozze raccolte presso le piattaforme. È urgente avere conferma che le cozze che finiscono nei piatti degli italiani non siano gravemente contaminate come quelle degli studi presentati da ENI al Ministero dell’Ambiente. «Chiediamo un rapido intervento delle autorità competenti affinché sia garantita trasparenza. E, se necessario, chiediamo che si attuino tutte le misure necessarie per tutelare la salute e la sicurezza alimentare dei consumatori italiani», dichiara Ungherese. Come minimo, se esistono dati che garantiscono i consumatori sulla sicurezza delle cozze raccolte e vendute in Emilia Romagna, essi non coincidono con i preoccupanti risultati dei monitoraggi che ISPRA ha condotto per conto di ENI. Greenpeace ritiene che su questi temi sia necessaria la massima attenzione dell’opinione pubblica e delle autorità, ancor più alla vigilia di un referendum sul quale sembra essere calato un preoccupante silenzio. «Molti tra quanti vorrebbero garantire lunghissima vita alle trivelle nei nostri mari affermano che è tutto a posto, perché entro le 12 miglia si estrae soprattutto gas, una fonte molto meno inquinante del petrolio. Eccoli smentiti: i dati di ENI confermano che le piattaforme a gas inquinano, eccome. E da quanto apprendiamo, questi inquinanti rischiano di finire sulle nostre tavole, nei nostri piatti. Un motivo in più per fermare le trivelle votando Sì al referendum del 17 aprile», dichiara Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace.