Un ruolo “centrale” è stato assunto “dalla genetica e dalla genomica, nel panorama dell’assistenza sanitaria“, cosa che “rende sempre più urgente il ripensamento della formazione delle figure professionali impegnate nel campo della Salute e l’organizzazione, a vari livelli istituzionali (a partire dalla scuola) di iniziative rivolte alla cittadinanza“, per “promuovere l’acquisizione delle conoscenze necessarie, anche bioetiche, per confrontarsi in modo attivo e critico con queste trasformazioni“.
Lo segnala il Comitato nazionale di bioetica nel parere ‘Gestione degli incidental findings nelle indagini genomiche con le nuove piattaforme tecnologiche‘, approvato all’unanimità e pubblicato oggi, con il coordinamento di Monica Toraldo di Francia e Bruno Dallapiccola. Nel documento sulla genetica umana, il Cnb affronta le questioni bioetiche suscitate dal rapidissimo evolversi delle tecnologie di sequenziamento genomico di seconda generazione, che negli ultimi anni hanno trasformato e accelerato la ricerca e la diagnosi di molte malattie. Queste nuove tecniche, hanno fatto nascere il bisogno di nuove linee guida condivise e, in particolare di regole comuni per la gestione, sia nella clinica che nella ricerca, dei cosiddetti reperti incidentali. Il Cnb, dopo aver descritto lo stato dell’arte, ripercorre alcuni momenti etici cruciali del dibattito con particolare riferimento alla discussione sulle basi teoriche del ‘diritto di non sapere’ in ambito genetico.
Pur consapevole che questa fase di transizione da conoscenze di base alle applicazioni cliniche è caratterizzata da elevata incertezza e da conoscenze che rischiano di essere superate in tempi rapidi, il Cnb delinea alcuni requisiti per i centri di genetica e per i laboratori che effettuano tali test. Ribadisce che l’incerta demarcazione del confine tra la ricerca e le sue applicazioni cliniche non deve mai fare perdere di vista che i test diagnostici hanno lo scopo primario di fornire una diagnosi al paziente, i cui bisogni devono rimanere al centro dell’indagine, e raccomanda, pertanto, che il paziente/il campione venga inserito in un progetto di ricerca soltanto dopo che il percorso dell’indagine diagnostica sia concluso (in senso positivo o negativo). Raccomanda, inoltre, che sia mantenuta, nella clinica come nella ricerca, la tradizionale distinzione fra adulti e minori e che il ‘miglior interesse’ del soggetto, non ancora in grado di dare il proprio consenso, sia oggetto di particolare attenta valutazione.
Si raccomanda altresì che il minore, una volta divenuto adulto, venga ricontattato e possa scegliere se dare/non dare il consenso alla ulteriore conservazione dei suoi campioni e dei suoi dati (come già sottolineano nel parere Biobanche pediatriche). Per quanto riguarda la questione del ritorno di informazioni ai donatori dei campioni biologici ai fini di ricerca, il Cnb ritiene che, nel caso di ricerche che prevedono la raccolta di larghi campioni, sia irrealistico pensare di ricontattare i donatori per aggiornarli sui risultati, che peraltro, ad oggi, difficilmente potrebbero avere un valore clinico di interesse individuale; ritiene, invece, che sia moralmente doveroso garantire, se richiesto, un ritorno dei risultati di rilevanza clinica (inclusi i reperti inattesi) ai pazienti affetti da malattie rare ancora privi di una diagnosi certa, lasciando sempre al soggetto interessato la possibilità di optare solo per la conoscenza di alcuni tipi di informazioni.