“I nuovi farmaci contro l’epatite C stanno dando risultati eccezionali: sono sicuri ed efficaci. E’ normale che, dopo gli studi registrativi condotti su popolazioni di pazienti molto selezionati, ora inizino ad arrivare i dati degli studi post-marketing, di ‘real life’, cioè quelli ottenuti anche su persone che appartengono a categorie particolari“. A spiegarlo all’Adnkronos Salute è Antonio Gasbarrini, professore di Gastroenterologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Così Gasbarrini commenta la decisione dell’Agenzia europea dei medicinali (Ema) di rivalutare l’insieme di dati disponibili sulle nuove terapie anti-Hcv, alla luce di alcuni nuovi risultati che hanno messo in evidenza un potenziale più alto rischio di recidiva di tumori nei pazienti trattati e, appunto, già affetti da neoplasia al fegato.
“Quando si effettua un trial registrativo di fase III – ricorda l’epatologo – si studia una popolazione di pazienti ben selezionata. Nel caso dei nuovi antivirali, tutti i trial sono stati portati avanti su pazienti con epatite C o cirrosi non colpiti da tumore al fegato. Si tratta per così dire di casi di ‘monomalattia’, e gli studi hanno dato risultati davvero buoni“. “In Italia ne abbiamo trattati 40.000, con esiti altrettanto eccezionali. Le autorità europee però -prosegue Gasbarrini- ci dicono: nel caso in cui si tratti un paziente cirrotico già con epatocarcinoma, ci vuole un’attenzione maggiore perché tecnicamente c’è un rischio di recidiva del cancro più alto rispetto a chi non ha ricevuto il trattamento contro il virus Hcv“.”La revisione lanciata dall’Ema, dunque – evidenzia con forza Gasbarrini – riguarda solo delle ‘popolazioni speciali’ di pazienti. In assenza di tumore non c’è alcun tipo di problema, le terapie sono sicure ed efficaci. E’ solo in queste ‘special population’ che bisogna essere cauti. E serviranno ora approfondimenti, con studi controllati su pazienti con tumore non trattati con i medicinali in questione“.
“La cirrosi – spiega ancora l’epatologo – dà molto spesso luogo a tumore del fegato e uno dei motivi per cui si vuole curare l’infezione da epatite C è proprio quella di evitare il cancro. Anche se oggi abbiamo a disposizione tante strategie per trattarlo: la chirurgia, le terapie locoregionali come l’alcolizzazione o la termoablazione, la chemio embolizzazione. Tutte strategie che “permettono di eliminare la neoplasia, che poi però -ricorda Gasbarrini – si può ripresentare. Nella ‘special population’ studiata nell’articolo a cui fa riferimento l’Ema, pubblicato da una équipe di Barcellona e pubblicato sul ‘Journal of Haepatology’, in un sottogruppo di 58 pazienti nei quali era stato eliminato l’epatocarcinoma e poi somministrata la terapia anti-Hcv, si è visto che l’anno successivo il tasso di recidiva da tumore era più alto di quello atteso“.
“Il lavoro, molto preliminare, solleva dunque un ‘warning’: occorre un’attenzione particolare nel dare queste terapie in chi ha avuto un tumore del fegato, perché -spiega Gasbarrini- l’impressione è che la terapia possa favorire la recidiva. Questo non è emerso dagli studi registrativi perché non erano coinvolti pazienti con tumore del fegato“. Stesso discorso per la segnalazione della riattivazione del virus dell’epatite B nei pazienti curati per epatite C e coinfetti: “Tutti gli studi sono stati fatti su pazienti con monoinfezione, in questa ‘special population’ sembra ci sia qualche dato che indica che quando si eradica il virus C, si può riattivare il virus B. Ma-sottolinea Gasbarrini- non sono dati così preoccupanti e non mi meraviglio perché il sistema immunitario è comunque messo alla prova quando si bersaglia e si eradica l’Hcv”. In sintesi il professore di Gastroenterologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma evidenzia che “questi studi segnalano che occorre adottare misure di controllo più serrate su queste categorie particolari di pazienti“.