È una giovane magnetar la pulsar più lenta che si conosca

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Il resto di supernova RCW103 – nella costellazione del Regolo, a novemila anni luce da noi – si formò circa duemila anni fa, quando una stella almeno dieci volte più grande del nostro Sole esplose, lasciando al suo posto una nebulosa. E al centro della nebulosa, una stella di neutroni, denominata 1E 161348-5055 (abbreviata per comodità in 1E 1613): un oggetto di densità inimmaginabile, con una massa di circa una volta e mezzo quella del nostro Sole concentrata in una sfera dal diametro di 20 km. Questa stella di neutroni, per decenni, ha lasciato perplessi gli esperti per una combinazione di tre fattori. Primo, l’emissione in banda X è prevalentemente termica, fenomeno molto raro per stelle di neutroni giovani come questa. Secondo, l’emissione in banda radio, tipica invece delle giovani pulsar, è praticamente assente. Infine, osservata nei raggi X, la stella mostra uno strano segnale, il cui periodo di modulazione è di circa 24 mila secondi: pari, dunque, a 6.67 ore. Lentissima.

«Questa modulazione poteva aver origine dal moto della stella di neutroni nella sua orbita in un sistema binario con un’altra stella, oppure poteva indicare la sua stessa rotazione: un po’ come la differenza tra un anno e un giorno», spiega Antonino D’Aì, ricercatore all’INAF IASF di Palermo e primo autore di uno dei due articoli – quello pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society (MNRAS) – che descrivono questa scoperta. «Però entrambi gli scenari presentavano problemi. Nel caso di un sistema binario, la stella compagna avrebbe dovuto essere una stella molto piccola: ma allora perché non è stata spazzata via dall’esplosione di supernova che duemila anni fa ha dato origine a 1E 1613? D’altro canto, i periodi di rotazione delle pulsar giovani sono tipicamente inferiori al secondo e, più in generale, la più lenta pulsar isolata conosciuta ha un periodo di 12 secondi: cosa potrebbe aver reso 1E 1613 così straordinariamente lenta?»

Immagini ottenute con lo strumento XRT del satellite Swift che mostrano l’accensione della sorgente prima (in alto) e dopo (in basso) il burst osservato dallo strumento BAT. Il colore blu indica luce a più alta energia, il rosso quella più bassa. Crediti: NASA / Swift / D’Aì et al.
Immagini ottenute con lo strumento XRT del satellite Swift che mostrano l’accensione della sorgente prima (in alto) e dopo (in basso) il burst osservato dallo strumento BAT. Il colore blu indica luce a più alta energia, il rosso quella più bassa. Crediti: NASA / Swift / D’Aì et al.

Un segnale tanto sorprendente quanto difficile da interpretare. Per risolvere l’enigma occorreva qualche dato in più. Dato giunto la notte del 22 giugno scorso, quando lo strumento Burst Alert Telescope (BAT) a bordo del satellite Swift della NASA ha catturato un breve, intensissimo, lampo X: un “flash” di appena 10 millisecondi proveniente dalla regione di RCW103. Lampi di questo tipo sono generati tipicamente da sorgenti conosciute come magnetar, ossia pulsar aventi un campo magnetico dalle cento alle mille volte più intenso rispetto a quello delle normali stelle di neutroni giovani.

Poteva dunque trattarsi d’una magnetar? Due diversi gruppi di ricerca si sono immediatamente messi al lavoro per capire se il lampo provenisse effettivamente da quella sorgente, e se potesse fornire l’indizio giusto per determinarne la natura. Il primo gruppo, coordinato appunto da Antonino D’Aì, ha attivato una campagna di osservazioni in banda X con lo stesso satellite Swift, e nel vicino infrarosso e in ottico con lo strumento GROND montato su un telescopio da 2.2 metri del Max Planck Institute di Monaco (Germania) e situato a La Silla, in Cile. Il secondo gruppo, diretto da Nanda Rea, ricercatrice italiana che ora divide i suoi impegni fra Spagna e Olanda, ha invece dato il via a osservazioni con altri due satelliti X della NASA: Chandra e NuSTAR. Entrambi i gruppi, partendo dalla scoperta di Swift e dai dati raccolti con i vari osservatori nei giorni successivi alla scoperta, sono giunti indipendentemente alla medesima conclusione: 1E 1613 aveva tutte le caratteristiche per essere classificata come una magnetar isolata.

«Subito dopo l’esplosione di supernova, grandi quantità di materiale inizialmente espulso dal sistema si sono probabilmente riaccumulate intorno alla magnetar, e l’hanno letteralmente quasi “arrestata” proprio a causa dell’interazione con il suo intenso campo magnetico. Questo spiegherebbe il perché di una rotazione così lenta», osserva Francesco Coti Zelati, coautore dello studio “olandese” (quello a prima firma Nanda Rea apparso su The Astrophysical Journal Letters), associato INAF all’Osservatorio astronomico di Brera e dottorando all’Università dell’Insubria e all’Università di Amsterdam.

«Dopo il lampo X del 22 giugno, altri due satelliti X con caratteristiche diverse» dice, riferendosi a Chandra e NuSTAR, Matteo Bachetti dell’INAF – Osservatorio astronomico di Cagliari, anch’egli fra i coautori dello studio “olandese”, «sono stati usati nel nostro lavoro per studiare in dettaglio il comportamento della sorgente, senza trovare traccia di rallentamenti inusuali nella rotazione». Nulla di anomalo nemmeno dalle misure effettuate con i telescopi terrestri: «Le nostre osservazioni infrarosse, ottiche e ultraviolette non hanno invece trovato traccia di materiale freddo che riprocessasse l’intensa radiazione X vicino alla pulsar», aggiunge infatti Sergio Campana dell’INAF – Osservatorio di Brera, fra i coautori del primo studio, quello uscito su MNRAS.

Entrambi i lavori, insomma, hanno indicato in modo indipendente che la sorgente è oggi probabilmente isolata. E che quelle interminabili 6.67 ore – per quanto un intervallo di tempo record per una pulsar – rappresentano, quindi, proprio il suo periodo di rotazione.

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