Anni di studio sul lievito di birra per scoprire tutti i segreti dell’autofagia, un processo fondamentale per la degradazione e il riciclo dei componenti cellulari: così il biologo cellulare giapponese Yoshinori Oshumi si è aggiudicato il premio Nobel per la Medicina 2016. Lo scienziato ha identificato e chiarito i meccanismi dell’autofagia, parola di origine greca che significa ‘auto-mangiare’. Un concetto emerso nel corso degli anni ’60, quando i ricercatori hanno osservato che la cellula poteva distruggere il suo stesso contenuto impacchettandolo in membrane, in modo da formare vescicole simili a mini-sacche che vengono trasportate nelle ‘centrali del riciclo’, i lisosomi, per essere degradate. La difficoltà di studiare l’autofagia ha fatto sì che si sapesse ben poco di questo processo fino a quando, grazie a una serie di esperimenti brillanti condotti nei primi anni ’90 da Ohsumi sul lievito di birra, sono stati identificati i geni chiave del meccanismo. Lo scienziato ha poi continuato a esplorare l’autofagia nel lievito, e ha dimostrato che un simile ‘macchinario sofisticato’ viene usato anche nelle cellule umane. Le scoperte di Ohsumi hanno aperto la strada alla comprensione dell’importanza fondamentale dell’autofagia in numerosi processi fisiologici, come l’adattamento alla fame o la risposta alle infezioni. Mutazioni nei geni dell’autofagia possono causare malattia e il processo è coinvolto in diverse condizioni, tra cui il cancro e le patologie neurologiche. A coniare il termine autofagia è stato nel 1963 un altro premio Nobel per la Medicina (nel 1974), il belga Christian de Duve, vincitore per la scoperta del lisosoma. A metà anni ’50, infatti, gli scienziati hanno osservato un nuovo compartimento cellulare specializzato, un cosiddetto ‘organello’, contenente enzimi in grado di digerire proteine, carboidrati e lipidi. E’ il lisosoma e funziona come una vera e propria stazione di lavoro per la degradazione dei costituenti cellulari. La cellula, secondo gli studi condotti successivamente negli anni ’60, sembra avere una strategia per recapitare ai lisosomi grossi carichi di materiale: una sorta di ‘camion dei rifiuti’ battezzati ‘autofagosomi’, proprio sulla base delle scoperte di de Duve. L’autofagia è dunque legata a doppio filo con la storia dei Nobel, tanto da averne fruttato anche un terzo – nel 2004 per la Chimica – ad Aaron Ciechanover, Avram Hershko e Irwin Rose per una scoperta relativa al meccanismo di degradazione delle proteine, che avviene in una struttura chiamata ‘proteasoma’ e individuata tra gli anni ’70 e ’80. Ohsumi entra in gioco nel 1988 quando avvia un laboratorio per studiare il sistema di degradazione delle proteine nel ‘vacuolo’, un organello che nel lievito corrisponde al lisosoma nelle cellule umane. Ma subito si trovò di fronte a una grande sfida: le cellule di lievito sono molto piccole e le loro strutture interne non sono facilmente distinguibili al microscopio. Si trattava quindi di dimostrare che l’autofagia esistesse anche in questo organismo. Lo scienziato giapponese ci riuscì in uno studio pubblicato nel 1992. L’intuizione fu quella di produrre lieviti mutati in cui il vacuolo era ‘spento’, affamando contemporaneamente le cellule in modo da stimolare il processo di autofagia per provarne l’esistenza. In poche ore, i vacuoli si riempirono di vescicole: erano gli autofagosomi. Era il primo passo di Ohsumi verso il Nobel. Il secondo fu la scoperta dei geni ‘registi’ dell’autofagia.
Ohsumi ha esposto i suoi lieviti ingegnerizzati a uno stimolo chimico in grado di introdurre mutazioni casuali in numerosi geni, e li ha nuovamente ‘affamati’ inducendo l’autofagia. In questo modo, nel giro di un anno, ha identificato 15 geni essenziali per questo processo. In una serie di studi successivi il biologo si è concentrato poi sulle proteine codificate da questi geni, scoprendo che l’autofagia è controllata da una cascata di proteine e complessi proteici, ognuno dei quali regola un preciso step della formazione degli autofagosomi. Dopo la descrizione del ‘macchinario dell’autofagia’ nel lievito, rimaneva una domanda chiave: esiste un meccanismo corrispondente in altri organismi? Fu subito chiaro che la risposta era sì e che anche le cellule umane possiedono questa ‘centrale di riciclo’, governata dalle stesse regole. Ma a cosa serve? Nel solco degli studi di Ohsumi è stato possibile osservare che l’autofagia può per esempio fornire rapidamente ‘carburante di emergenza’ utile al rinnovo dei componenti cellulari, in risposta al digiuno o ad altri tipi di stress. E ancora: l’autofagia può eliminare dalla cellula batteri o virus invasori in caso d’infezione; contribuisce allo sviluppo dell’embrione e alla differenziazione cellulare; esegue una specie di ‘controllo qualità’ che permette di eliminare proteine danneggiate, un meccanismo cruciale per contrastare i danni dell’invecchiamento. Un difetto nel meccanismo dell’autofagia è stato associato ad esempio alla malattia di Parkinson, al diabete di tipo 2 e ad altri disturbi che compaiono in vecchiaia. Mutazioni nei geni dell’autofagia possono provocare malattie genetiche, e difetti nel suo ‘macchinario’ sono stati anche correlati al cancro. Intense ricerche sono ora in corso per sviluppare farmaci che hanno come bersaglio proprio l’autofagia, nella lotta a varie malattie.