Il primo dicembre del 1923, sulle Alpi lombarde, nella Val di Scalve (valle laterale della Val Camonica), si verificò un disastro che causò centinaia di vittime. Viene ricordato come disastro del Gleno. Una diga costruita sul torrente Povo, realizzata per lo sfruttamento dell’energia idroelettrica, cedette a poco più di un mese dal primo riempimento del bacino.
Nonostante le evidenti carenze strutturali, con fughe d’acqua e cedimenti, nulla venne fatto per mettere in sicurezza i paesi situati a valle dello sbarramento artificiale. Il primo dicembre 1923, alle 7.15 della mattina, avvenne il crollo: sei milioni di metri cubi d’acqua si riversarono a valle distruggendo ogni cosa. Il primo paese ad esser spazzato via fu Bueggio, poi Dezzo, Angolo, Mazzunno, Gorzone, Boario e Corna di Darfo. Dopo 45 minuti dal crollo l’acqua tumultuosa raggiunse il lago d’Iseo. Lungo il percorso lasciò 356 vittime (ma il numero ufficiale è ancora oggi incerto e potrebbe superare le 500).
Dopo pochi mesi il Procuratore del Re incolpò i responsabili della ditta Viganò ed il progettista per l’omicidio colposo di circa cinquecento persone. Durante il processo emerse che i lavori erano stati effettuati in modo approssimativo ed in economia.
Il disastro del Gleno ricorda per alcuni aspetti un altro terribile disastro causato dalla realizzazione di un invaso artificiale: quello del Vajont del 9 ottobre 1963. In quell’occasione però non fu la diga a cedere (la diga del Vajont è ancora oggi in piedi, un’opera ingegneristica di alto livello), ma la montagna alle sue spalle. I lavori di realizzazione della diga non avevano tenuto in conto le caratteristiche geologiche dell’area, e una serie di fattori concatenati causò il distacco di un enorme frana. Questa, cadendo nel lago artificiale, provocò una ondata che uccise duemila persone e rase al suolo l’alta Valle del Piave.