L’Artico sta cambiando, lo sta facendo molto rapidamente e continuerà a farlo, indipendentemente dalle azioni adottate per limitare le emissioni a livello globale, almeno per i prossimi 25-30 anni. Il cambiamento, che avviene su scale diverse, porta a scenari impossibili da prevedere, e di cui potrebbero non esserci esempi nel passato. Si materializza ogni giorno sotto gli occhi prima ancora che le lenti di chi vi fa ricerca, ma anche molto più in là, in Asia e sulla East coast degli Stati Uniti: perché proprio come il battito d’ali di una farfalla in Brasile, anche una variazione nella quantità di ghiaccio sciolto lassù, provoca tempeste a New York. Il cambiamento investe l’ambiente, ma anche l’economia, con lo sfruttamento crescente delle risorse della regione, in cui si troverebbero il 13 % delle riserve non ancora scoperte di greggio e il 30% di quelle di gas, oltre che la definizione di strategie per il futuro da parte dei paesi, Italia inclusa. “Da quando sono nate le mie figlie, che ora sono adolescenti, la regione è cambiata in modo drammatico, la mia intera carriera di ricercatrice si è svolta all’insegna di questi cambiamenti. E’ cambiato il ritmo con cui si alternano le stagioni. Lo scioglimento dei ghiacci arriva prima e anche la primavera arriva prima“, ha spiegato la biologa Marit Reigstad, dell’Università norvegese dell’Artico, nel suo intervento alla conferenza “The Future of the Artic: Geopolitical, environment and economic perspectives” organizzata nei giorni scorsi a Roma dall’Istituto affari internazionali, il Cnr, l’ambasciata norvegese e l’organizzazione impegnata a promuovere uno sviluppo sostenibile della regione Artic Frontiers. In aumento nella regione soprattutto le attività legate allo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas in cui ora sono impegnate Statoil, Eni e Gazprom, con progetti già operativi in zone prive di ghiaccio come la piattaforma di Goliat della compagnia italiana nel mare di Barents inaugurata nei mesi scorsi, e studi su quelli “estremi”, per il cui sfruttamento non sono ancora disponibili le tecnologie. Anche la navigazione è destinata a intensificarsi e per questo il prossimo primo gennaio entrerà in vigore il Codice polare, con la richiesta, fra l’altro, di una certificazione speciale per tutti gli armatori le cui navi fanno rotta nella regione, a fronte dei maggiori rischi che pone la navigazione in questa regione. A rendere conto di un aumento del traffico non è per il momento la cosiddetta ‘rotta occidentale’ (che si è aperta con lo scioglimento dei ghiacci che consente il risparmio del 40 per cento di percorso sulla tratta dall’Asia sudoccidentale all’Europa, ndr), su cui in questi mesi di prezzo ridotto del petrolio, e quindi un minor risparmio sul carburante, è diminuita di recente l’attenzione, a fronte dei costi elevati per l’assicurazione, gli equipaggiamenti, la formazione del personale. Ma per le navi che trasporteranno, una volta operativi, il gas estratto da nuovi giacimenti, che si aggiungono all’aumento del turismo e della pesca.
L’Artico è fra le regioni in cui gli effetti dei cambiamenti climatici sono più pronunciati, anche se non contribuisce alle emissioni che ne sono responsabili. Lo scioglimento dei ghiacci che provoca i cambiamenti ha, a sua volta, effetti sul resto del mondo, sottolinea Anniken Krutnes, ambasciatore norvegese per l’Artico e l’Antartide. L’inquinamento arriva nell’Artico da sud, attraverso i mari e l’atmosfera, aggiunge Geir Wing Gabriels, direttore della sezione inquinamento ambientale dell’Istituto polare norvegese, puntando il dito contro l’industria chimica e la plastica: ci sono 30 milioni di tonnellate di plastica nell’Oceano, un milioni di uccelli marini e 100mila mammiferi marini ne sono colpiti. “Ogni anno registriamo la presenza di nuove sostanze chimiche“, denuncia. “Quasi ogni anno – gli fa eco Reigstad- registriamo nuovi record, le specie animali che vivono nella regione hanno un futuro non prevedibile. Le caratteristiche evolutive che le rendevano vincenti in questo ecosistema non offrono loro un lasciapassare magico per il nuovo ambiente. Non siamo in grado di prevedere cosa accadrà all’Oceano Artico. Tanto rapidi sono i cambiamenti“, aggiunge. Il suo collega ricercatore Tor Eldevik, professore di oceaonografia su larga scala e dinamiche decadali del clima all’Istituto di geofisica dell’Università di Bergen, qualcosa, per l’Europa nord occidentale, è in grado di anticiparlo: il prossimo anno, dovrebbe essere un poco più fresco e dovrebbe esserci un tantino più di ghiaccio. Il che ovviamente rientra nelle normali fluttuazioni su periodi di 5-10 anni, del clima, che non incidono sull’andamento generale che è quello dell’aumento delle temperature medie, ben evidenziato dalla curva tracciata grazie ai modelli che usano dati raccolti dai sedimenti. Nessuna contraddizione: “I cambiamenti climatici procedono velocemente, anche se il prossimo anno sarà un pò più fresco. Il vero ‘gamechanger’ arriverà nel momento in cui in estate non ci sarà più ghiaccio“. Il problema è che sul fronte delle previsioni più a lungo termine, “non abbiamo altro che il passato a cui fare riferimento e che ora sono molti i fattori a cambiare insieme, e questo potrebbe portare cambiamenti non lineari, a cambiamenti amplificati e situazioni non prevedibili e mai viste prima“, sottolinea Reigstad. Nell’attesa, considerato che comunque nei prossimi 25-30 anni l’andamento è segnato, si studia anche la resilienza, la possibilità di adattamento?a un ambiente che cambia. Degli animali e delle comunità. Quando si scioglie il ghiaccio nell’Artico, si libera nell’atmosfera energia termica, quindi si abbassa la differenza di temperatura fra l’Oceano e l’atmosfera e si può scatenare un flusso di corrente fredda verso l’est coast degli Stati Uniti e l’Asia orientale e quindi eventi estremi. Ecco perché i meteorologi giapponesi partecipano alle missioni nell’Artico: con le misurazioni che effettuano nella regione, possono effettuare migliori previsioni altrove, spiega Harald Steen, direttore del Centro di ricerca ICE, del Polar Institute norvegese e responsabile della missione Norwegian Young Sea ICE Cruise, che ha consentito ai ricercatori a bordo di una lancia incastrata frai ghiacci 760 chilometri a sud del Polo Nord fra il gennaio e il giugno dello scorso anno, di misurare differenze di comportamento fra ghiaccio giovane, quello nuovo che ogni anno si forma l’inverno, e ghiaccio di età superiore all’anno: tutti i modelli usati per effettuare previsioni si basano sul comportamento del secondo, che sta diventano meno importante e soprattutto che si scioglie meno velocemente del primo. Nella regione dell’Artico, la Russia, in cui pure apre infrastrutture militari, “si comporta seguendo le regole“, non ha la stessa attitudine aggressiva che dimostra più a sud, spiega Krutnes all’Adnkronos. Perfino le rivendicazioni territoriali di Mosca, quindi sulle risorse naturali imprigionate sotto i ghiacci, avvengono secondo la norma, ovvero cercando di capire se la dorsale di Lomonosov fa parte della sua piattaforma continentale, come fanno anche Danimarca e Canada. “Il problema principale dell’Artico non è la Russia, ma i cambiamenti climatici“, taglia corto Krutnes. E’ vero, “non si tratta di un’area in cui si è sviluppata una grande tensione militare, come in Ucraina, ma di certo è in atto un rafforzamento della capacità militari nella regione, sopratutto da parte russa. Anche Barack Obama ha approvato una strategia per l’Artico, che prevede un rafforzamento della presenza militare degli Stati Uniti. La stessa Italia ha adottato una strategia lo scorso maggio e dal 2013 è entrata a far parte del Consiglio Artico, perché considera la regione importante a livello geostrategico per gli equilibri globali e quindi vuole avere un suo posizionamento anche politico, oltre che industriale ed economico, considerate le diverse aziende italiane con interessi nella regione (Eni, Fincantieri, Leonardo-Finmeccanica, e-Geos, fra le principali)“, spiega all’Adnkronos Nicolò Sartori, coordinatore del programma energia dello Iai e organizzatore, per l’Istituto affari internazionali, della conferenza.