Neurologia: casi di ictus in calo in Italia, “curare il cervello migliora la vita”

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Ictus in calo in Italia. A segnalare il trend per una patologia che resta pur sempre la prima causa di disabilità, la seconda di demenza e la terza di morte nel mondo industrializzato sono i neurologi della Sin (Società italiana di neurologia), che a Milano hanno presentato l’edizione 2017 della Settimana mondiale del cervello, in programma da oggi 13 marzo a domenica 19 con iniziative su tutto il territorio nazionale. Il messaggio che fa da collante è uno e vale per tutte le potenziali minacce all’integrità della mente e per tutte le età: ‘Curare il cervello migliora la vita’. Curare e fare prevenzione salva-cervello, un aspetto sul quale bisogna insistere, fanno notare gli esperti. “Dati recenti sulla popolazione italiana – spiega Elio Agostoni, direttore del Dipartimento di neuroscienze e della Struttura complessa di neurologia e Stroke Unit all’Asst Grande ospedale metropolitano Niguarda di Milano – indicano che negli ultimi 20 anni l’incidenza di primi ictus è diminuita del 29%, sia per ictus ischemici sia per ictus emorragici, ma non per l’emorragia subaracnoidea. Tale riduzione è sta osservata nonostante un indice di invecchiamento della popolazione con età superiore ai 75 anni pari al 33%. La riduzione dell’incidenza interessa in particolare gli ictus disabilitanti e fatali. La percentuale di mortalità a 30 giorni è invece rimasta la stessa“. I neurologi provano a spiegare i dati in diminuzione: “E’ plausibile attribuire” questo trend “all’aumento e al miglioramento delle strategie preventive, a un miglior controllo dei fattori di rischio vascolare e al ruolo della chirurgia vascolare, anche per il considerevole numero di interventi chirurgici eseguiti per stenosi della carotide (salito peraltro dal 17,2% al 17,8%)“. Non va abbassata la guardia. “Oggi nel Paese sono circa un milione le persone che vivono con esiti invalidanti della malattia – ricorda Agostoni – I nuovi casi sono circa 180 mila ogni anno. Prima questo dato era più alto, a quota 200 mila. E la prevenzione ha permesso di recuperare quei circa 20 mila casi nel corso dell’ultimo decennio. Lo stesso ci permettono di fare sempre di più le terapie in fase acuta“, per le quali si aprono nuove frontiere, “perché siamo migliorati anche su questo fronte“. Un fronte dove il fattore tempo resta cruciale per l’efficacia delle procedure messe in campo. La comunità scientifica ha lavorato per ridurre il ritardo evitabile nei soccorsi in caso di ictus con l’efficienza organizzativa e la logica di rete (60 minuti il limite temporale che orienta le modalità di trasporto dei pazienti e lo smistamento in hub e spoke). Agli italiani i neurologi della Sin ricordano 10 regole d’oro per allontanare lo spettro dell’ictus. Il primo ‘comandamento’ è appunto “prevenire“, che “è meglio che curare. Le strategie di prevenzione dell’ictus sono più efficaci se vengono attuate quando l’ictus non si è ancora manifestato ossia in soggetti che ‘stanno bene’“. E’ consigliabile, continuano gli esperti, effettuare periodiche visite dal proprio medico di famiglia che provvederà a verificare il profilo di rischio vascolare. Secondo punto: non fumare. E la lista prosegue con: praticare attività fisica e sportiva, quotidiana, anche moderata come ad esempio camminare a passo spedito per 30 minuti al giorno; controllare il peso corporeo (ridurlo in chi è in sovrappeso ha effetti positivi su pressione, diabete e grassi nel sangue); limitare il consumo di alcol (in modiche quantità può esercitare un effetto protettivo per le malattie vascolari e l’ictus); correggere l’alimentazione (meno grassi e condimenti di origine animale, più pesce quale fonte di grassi polinsaturi, frutta, verdura, cereali integrali e legumi quale fonte di vitamine e antiossidanti); limitare il sale nella dieta (meno di 6 grammi); controllare la pressione arteriosa; controllare la glicemia e attenzione alla fibrillazione atriale. L’utilizzo della membrana amniotica “è favorito dalla sua bassa immunogenicità – evidenzia Manganini – ovvero le sue componenti cellulari ed extracellulari causano una più bassa risposta immunitaria al momento del trapianto, riducendo quindi il rischio legato al rigetto del tessuto, anche in caso di trapianti eterologhi, permettendo un suo uso più sicuro non solo per il proprietario (il bambino), ma anche per terzi a cui la membrana decellularizzata può essere donata“. “L’entusiasmo che i nostri servizi generano tra gli scienziati e i medici di tutto il mondo dimostra che la speranza è davvero tanta – dichiara Marco Reguzzoni, amministratore delegato di Biocell Center – I ricercatori soprattutto vedono nelle cellule placentari e nella membrana amniotica una concreta possibilità di utilizzo, eticamente accettabile e geneticamente stabile: in fin dei conti recuperiamo cellule staminali e materia ricca di fattori di crescita da rifiuti biologici che altrimenti finirebbero in discarica, ricavandone elementi potenzialmente utili per la cura di molte brutte malattie“. Con il nuovo servizio Biocell Center, spin off di un altro centro lombardo, il laboratorio Toma diretto da Giuseppe Simoni, “aggiunge questo primato ad altri traguardi – si legge nella nota – come l’aver aperto la prima criobanca al mondo per la conservazione del liquido amniotico (Boston) e la prima per i villi coriali e la placenta (Lugano), sempre con riferimento alle ricerche e agli studi sulle cellule prenatali“.

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