È il 13 novembre del 2016 e siamo dall’altra parte del mondo. All’1 di notte, ora locale in Nuova Zelanda, un terremoto di magnitudo 7.8 squarcia il distretto di Kaikoura nella regione di Canterbury, Isola del Sud. Si tratta di uno dei più forti eventi sismici avvenuti sul territorio, e tra i più complessi mai registrati da strumentazione moderna.
A circa 250 chilometri dall’epicentro, nella zona di Wellington, si trova una delle sedi del GNS Science, principale centro di ricerca e monitoraggio geologico neozelandese. Anche qui il terremoto si avverte molto bene, e nel cuore della notte diversi ricercatori sono già in ufficio a lavorare sui primi dati raccolti.
Tra loro c’è l’italiana Elisabetta D’Anastasio, che dopo dieci anni di lavoro all’INGV si è trasferita al GNS neozelandese per occuparsi di monitoraggio sismico in un territorio dove l’incidenza di terremoti è incredibilmente alta.
Ma quello di Kaikoura – spiega l’Agenzia Spaziale Italiana – si mostra fin da subito come un sisma diverso dagli altri, che potrebbe rivoluzionare alcune delle certezze dei sismologi. Per tre mesi il team del GNS Science lavora incessantemente ai dati raccolti, integrando informazioni GPS, satellitari e rilievi geologici.
I risultati, pubblicati qualche giorno fa su Science, rivelano un quadro estremamente complesso e inaspettato.
“Quello di Kaikoura – dice ad Asi.it Elisabetta D’Anastasio, co-autrice dell’articolo – è uno dei più forti terremoti con epicentro a terra avvenuti in tempi recenti, e questa è la prima particolarità. Di solito terremoti simili in zone di subduzione avvengono in mare, dove non è possibile avere misure dirette nella zona in cui si è generato il terremoto.”
“Invece nel caso di Kaikoura abbiamo potuto misurare da vicino l’evoluzione della rottura, e la qualità e quantità di dati ora disponibili è molto alta. Già poche ore dopo il terremoto, analizzando i primi dati GPS a disposizione, abbiamo iniziato a intravederne la complessità. A quel punto sono iniziati ad arrivare i dati satellitari, e la loro integrazione con i dati di terra ci ha permesso di capire che gli spostamenti osservati erano imponenti: alcune aree hanno subito fino a 12 metri di movimento orizzontale e 8 metri di sollevamento” spiega la ricercatrice.
I satelliti che hanno contribuito allo studio sono Sentinel-1 e ALOS-2, che orbitano intorno ai poli terrestri ad altezze rispettivamente di 600 e 700 chilometri. La frequenza delle loro orbite va da 6 a 30 giorni, e questo ha permesso agli scienziati di confrontare diverse immagini prima e dopo il terremoto.
In particolare, è stata utilizzata la tecnica di interferometria satellitare chiamata InSAR (da Interferometric synthetic aperture radar), che permette di ricostruire il campo di spostamento cosismico e da questo di individuare le faglie che hanno generato il terremoto.
Il nuovo studio su Science, coordinato da Ian Hamling del GNS neozelandese, ha inoltre utilizzato una nuova tecnica con cui i ricercatori hanno ottenuto una mappa tridimensionale di spostamento.
“InSAR ha fatto la parte da leone – continua D’Anastasio – perché ha fornito una incredibile quantità di dati in tempi relativamente rapidi. Il nostro obiettivo era dare una risposta adeguata alla protezione civile neozelandese e alla popolazione.”
L’applicazione delle tecnologie spaziali e satellitari al sistema di monitoraggio e intervento a seguito di catastrofi naturali è un approccio che si sta raffinando sempre di più nei paesi a rischio sismico, come dimostra anche il recente accordo tra l’Agenzia Spaziale Italiana e la nostra protezione civile.
Nel caso del terremoto di Kaikoura, il GNS Science ha lavorato a stretto contatto con il Jet Propulsion Laboratory della NASA e con il Comet in Gran Bretagna.
“C’è stata una grossa collaborazione internazionale – racconta la ricercatrice – e sia l’agenzia spaziale europea che quella giapponese hanno realizzato specifiche acquisizioni satellitari post terremoto per studiare nel dettaglio ciò che è successo a Kaikoura. Da qui è emerso il secondo aspetto interessante di questo terremoto: la sua enorme complessità. Abbiamo capito che il sisma ha coinvolto la rottura simultanea di più faglie, un dato assolutamente nuovo per noi.”
I modelli sismici esistenti infatti dicono che i grandi terremoti – come quello di Tohoku-Oki, che ha sconvolto il Giappone nel marzo 2011 – avvengono in genere su una singola struttura.
“Nel caso di Kaikoura invece – continua D’Anastasio – l’integrazione dei dati satellitari e dei dati a terra ha dimostrato che si è trattato della rottura di molte faglie: ne abbiamo riconosciute 12 principali e 9 minori. Dai primi modelli sembra che la rottura si sia propagata da una struttura all’altra per oltre 180 chilometri, con un effetto domino e un un devastante impatto sul territorio. Questi risultati potrebbero cambiare il modo in cui il rischio sismico viene calcolato nei diversi Paesi.”