Ogni anno, durante l’equinozio d’autunno, viene rivissuto ciclicamente il sacrificio del dio/dea che, dopo gioie e glorie amorose primaverili ed estive, dopo aver dato la massima potenza fecondante ai frutti e a tutti gli esseri viventi, è costretto/a a morire, a declinare nel buio della terra intesa come ventre, utero, tomba, infero. E’ il tempo di raccogliere dagli ultimi frutti, ben maturi, i semi che serviranno a darci da mangiare l’anno successivo, da essiccare all’aria e all’ombra, da conservare al buio o all’asciutto in sacchetti di carta con scritto il nome, aspettando la primavera per piantarli. E’ questo il tempo in cui le tenebre iniziano a prevalere e le energie vitali a spegnersi progressivamente. In autunno e per tutto l’inverno, tutto assumerà una prospettiva precaria e malinconica.
Numerose sono le usanze tramandate nelle campagne, associate a riti propiziatori volti a ringraziare le divinità o le potenze occulte che governano la fertilità del suolo. Pensiamo, ad esempio, al rituale di lasciare qualche spiga sul terreno al termine dell’ultimo raccolto di agosto, al non consumare l’ultimo covone o a spargere un po’ di cereali a terra nel granaio durante l’immagazzinamento delle provviste. La celebrazione dell’equinozio d’autunno ha carattere meditativo, di bilancio, di presa di coscienza che ci proietta verso l’attesa e la speranza per un nuovo ciclo, altrettanto propizio.
Associati alla morte e alla trasformazione delle forze vitali attraverso la rinascita sono i rituali concernenti le operazioni di raccolta, spremitura, fermentazione del vino, analogia del ciclo vita/morte, trasmutazione o passaggio ad una nuova vita. Il vino, a ben guardare, ricorre nella simbologia cristiana come sangue di Cristo, essenza che contiene lo spirito imperituro della vita, mentre la vite era già anticamente associata all’Albero della Vita, capace di collegare i due mondi.