Tutto sbagliato, tutto da rifare. Il motto di Gino Bartali si adatta bene a descrivere il quadro della ricostruzione post-terremoto a più di un anno dal primo sisma del Centro Italia, quello del 24 agosto che investì l’area di Amatrice, Norcia e la Valle del Tronto, seguito da una sequenza di scosse tra il 26 e il 30 ottobre e da un terzo episodio il 18 gennaio.
Slow Food Italia, attiva nel sostegno alle aree interne fin da prima del terremoto – attraverso gli Stati Generali delle Comunità dell’Appennino – e ora impegnata nella campagna di solidarietà La buona strada, riannoda i fili di un discorso mai interrotto a Cheese 2017.
«Il nostro territorio va aiutato, ma soprattutto va aiutato ad aiutarsi» sintetizza Fiorenzo Sardo, presidente del Consorzio del pecorino di Farindola in Abruzzo. Il paese, tristemente noto alle cronache per la tragedia di Rigopiano, dà il nome a un formaggio che è stato tra i primi nell’area a entrare fra i Presìdi di Slow Food: «Più ancora dei disastri, è l’incuria dei decenni precedenti ad aver cambiato i connotati di queste regioni: è come se non avessimo pulito casa per molto tempo. Ora c’è bisogno di piccoli aiuti e Slow Food può creare altre reti come la nostra».
Questo è proprio il senso della campagna La buona strada, avviata con l’obiettivo di finanziare l’acquisto di un furgone attrezzato, un caseificio mobile (43000 €) e due negozi mobile (66000 € l’uno) da mettere a disposizione delle aziende agricole nelle quattro regioni colpite dal sisma.
«All’indomani del terremoto, Carlo Petrini disse che la partita si sarebbe giocata sulla tenuta nel tempo: i problemi nascono infatti dopo l’emergenza, quando c’è da ricostruire un tessuto di comunità, a partire dalle produzioni agroalimentari» afferma Lorenzo Berlendis, vicepresidente di Slow Food Italia.
Con La buona strada si è voluto partire proprio dalle peculiarità dei luoghi per ricostruire: «Occorre scongiurare il pericolo che all’azione dei disastri naturali si aggiungano l’abbandono e lo spaesamento. Le aree interne sono i giacimenti delle eccellenze per cui l’Italia è conosciuta nel mondo e le attività umane in quei luoghi offrono servizi ecosistemici insostituibili: ma bisogna comprendere che è necessario mantenere abitabili quei luoghi, e che la banda larga serve tanto ai giovani produttori dell’Appennino quanto a chi lavora a Milano».
A queste parole fanno eco quelle di Paolo Scaramuccia, responsabile delle cooperative di comunità per Legacoop: «Il terremoto ha posto all’evidenza del grande pubblico un tema, quello dello spopolamento delle aree interne del Paese, che è latente da decenni da Nord a Sud. I paesi del “Chiantishire” hanno problematiche non dissimili da quelli che affrontano l’entroterra molisano o le stesse aree terremotate».
Da questa consapevolezza nasce il progetto delle cooperative di comunità, che si differenzia dalle coop tradizionali perché lo scambio mutualistico non è rivolto solo ai soci, ma all’intera comunità: «Su questa linea abbiamo iniziato a lavorare con Slow Food, sia prima che dopo il terremoto. Le produzioni agroalimentari sono infatti il primo passo per il rilancio».
Se molti soggetti privati si adoperano nel sostegno alle aree interne, a livello pubblico manca ancora un coordinamento diffuso e davvero legato alle dinamiche locali. Specie nelle aree del terremoto: «Chi ha gestito le politiche ha messo in atto una strategia dell’abbandono, e per l’ennesima volta si è pensato al postdisastro senza pensare alle comunità» spiega il sociologo Davide Olori, che ha studiato gli effetti del terremoto sui tessuti sociali dell’Appennino.
La prassi comune è infatti quella di invitare le popolazioni a lasciare i paesi, limitandosi magari a sostenere l’attività di agricoltori e allevatori. Ma ci sono limiti facili da intuire: «Creare il deserto sociale attorno alle aziende agricole fa sì che si mantengano in vita solo le economie con una forte vocazione all’esportazione. Gli anziani contadini con i loro orti, le piccole produzioni che caratterizzano davvero i territori, finiscono per soccombere».
Con paradossi incredibili, continua il sociologo, nel momento in cui gli stessi decisori che autorizzano un centro commerciale temporaneo sulla piana di Castelluccio conducono una guerra senza quartiere contro le abitazioni provvisorie di chi ha scelto di restare.
Olori cita altri due esempi emblematici, la fabbrica della Tod’s a Pescara del Tronto («costruita all’interno di tre parchi naturali, in una provincia che è tra le prime per abbandono industriale») e l'”area food” di Amatrice progettata da Stefano Boeri: «Amatrice è Amatrice perché è inserita all’interno di un sistema ecologico, le cui componenti concorrono insieme a realizzare i prodotti del territorio non possono essere isolate».
Dell’Appennino come periferia dimenticata parla anche il regista Alessandro Scillitani, che insieme al giornalista e scrittore Paolo Rumiz ha percorso le vie del cratere da Amatrice a Visso: «Marco Revelli mi ha detto che l’Italia nel Novecento ha visto tre apocalissi: le due guerre mondiali e il boom economico, che ha portato allo spopolamento delle nostre montagne. Le macerie che abbiamo visto ancora in marzo, gli animali lasciati senza riparo, sono forse i resti della quarta apocalisse di questa terra».
Eppure ha più senso che mai raccontare le vicende di quell’Appennino che Rumiz definisce “la spina dorsale della penisola”, spiega il regista: «I giornali parlano dei disastri solo finché fanno notizia, ma è proprio dopo che diventa necessario raccogliere le storie, i ritorni, le resistenze. Meraviglia e orrore si ritrovano insieme in luoghi come la piana di Castelluccio: raccontando questi passaggi tra luce e ombra diamo voce a chi resta, e a chi ha voglia di tornare».