Da circa mezzo secolo la teoria del Big Bang, quella che spiega la nascita ed evoluzione del nostro Universo, è la più accreditata all’interno della comunità scientifica. Ma ovviamente il consenso non è unanime. In uno studio appena pubblicato sulla rivista General Relativity and Gravitation, il fisico brasiliano Juliano César Silva Neves propone una modifica del modello, con l’eliminazione di uno dei suoi elementi chiave: la singolarità iniziale. «Credo che il Big Bang non sia mai accaduto», afferma Neves. Secondo il ricercatore, lo stadio di espansione accelerata avvenuta circa 14 miliardi di anni fa non esclude la possibilità di una contrazione precedente, e il passaggio dalla contrazione all’espansione potrebbe non aver cancellato tutte le tracce di ciò che era avvenuto prima. «Per misurare la velocità di espansione dell’Universo con il modello cosmologico standard si utilizza una funzione matematica che dipende solo dal tempo cosmologico», spiega Neves. Il nuovo modello, invece, propone l’introduzione di un fattore di scala, attraverso il quale il tasso con cui l’Universo si espande dipende anche dalla scala cosmologica. Con il fattore di scala, il Big Bang – si spiega su Global Science – smette di essere una condizione necessaria affinché il cosmo inizi la sua espansione da un momento in cui tutta la materia e l’energia dell’Universo si trovavano compresse in uno stato di densità e temperatura infinite.
La teoria del Big Bang nasce alla fine degli anni ‘20 del secolo scorso, da questo modello derivano tre possibili panorami per il destino dell’Universo: un’espansione infinita, un blocco permanente dell’espansione, oppure un processo di contrazione con un collasso finale, chiamato Big Crunch. «Eliminare la singolarità iniziale riaccende l’interesse verso l’ipotesi di un Universo che “rimbalza”», dice Neves. Un’ipotesi radicata nel panorama cosmologico che prevede il Big Crunch.
Il punto di partenza delle indagini di Neves sono i buchi neri, ovvero gli oggetti cosmici più densi che conosciamo, che generano un’attrazione gravitazionale talmente intensa da imbrigliare anche la luce. «Potrebbero esserci dei resti di buchi neri che risalgono alla fase precedente alla contrazione, che sono riusciti ad attraversare indenni il collo di bottiglia del “rimbalzo”», spiega Neves. Il fattore di scala formulato da Neves è stato ispirato da un lavoro del fisico statunitense James Bardeen, che nel 1968 utilizzò un espediente matematico per modificare la soluzione delle equazioni della relatività generale che descrivono i buchi neri. L’espediente consisteva nel pensare alla massa del buco nero non come una costante, ma come una funzione che dipende dalla distanza dal centro del buco nero stesso, definendo così il cosiddetto buco nero regolare. Dato che all’interno di un buco nero regolare è impossibile la formazione di singolarità, Naves ha pensato di utilizzare un artificio matematico simile per eliminare la singolarità che avrebbe dovuto dare inizio al nostro Universo.
Sebbene l’ipotesi di un cosmo che subisce continui rimbalzi sia affascinante, affinché questa teoria possa entrare a pieno titolo tra le candidate a spiegare l’evoluzione dell’Universo dovrà essere sottoposta a verifiche. Occorre dunque andare alla ricerca di tracce che portino testimonianza di una fase di contrazione precedente a quello che attualmente consideriamo il Big Bang. «Quali tracce? I candidati includono resti di buchi neri che potrebbero essere sopravvissuti al rimbalzo», conclude Neves.