Poche gocce di sangue per individuare il tumore del seno in fase iniziale e test genomici per personalizzare i trattamenti ed evitare alle pazienti inutili tossicità. La lotta contro la neoplasia più frequente fra le italiane (50.500 nuovi casi stimati nel 2017) passa attraverso le nuove tecnologie. In otto anni (2010-2017) nel nostro Paese le donne vive dopo la diagnosi di tumore del seno sono aumentate del 26%. Oggi 766.957 italiane si trovano in questa condizione. Un risultato molto importante, mai raggiunto in precedenza, soprattutto se si considera che per quasi 307mila donne (oltre il 40% del totale) la diagnosi è stata effettuata da oltre un decennio. Ai nuovi trattamenti nel carcinoma del seno è dedicata la quinta edizione dell’International Meeting on New Drugs (and New Concepts) in Breast Cancer, in corso all’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma con la partecipazione di più di 200 esperti da tutto il mondo. “In quindici anni le percentuali di guarigione in questa malattia sono cresciute di circa il 5%, passando dall’81 all’87 per cento – afferma il prof. Francesco Cognetti, Direttore della Oncologia Medica del Regina Elena e presidente del Congresso -. Si tratta di un risultato eccezionale, da ricondurre alle campagne di prevenzione e a terapie innovative sempre più efficaci. Oggi abbiamo molte armi a disposizione, dalla chemioterapia all’ormonoterapia alle terapie target fino all’immunoterapia. E si stanno aprendo nuove prospettive per personalizzare i trattamenti, grazie a esami genomici che analizzano il DNA del tumore per capirne l’aggressività. In particolare un test prognostico e predittivo, Oncotype DX, supporta l’oncologo nella personalizzazione delle terapie in pazienti con carcinoma mammario in fase iniziale. È uno strumento utile nella scelta del trattamento per le donne che, in base alle caratteristiche anatomopatologiche e cliniche, sono in una sorta di zona grigia, in una fase in cui non si può includere o escludere con certezza la chemioterapia rispetto alla sola ormonoterapia. Per i risultati raggiunti questo esame è stato inserito nelle raccomandazioni delle principali linee guida internazionali”. In Italia, a partire da febbraio 2016, è stato attivato un programma di sperimentazione con il quale si è reso disponibile il test Oncotype DX nei centri di riferimento italiani per il tumore mammario. Da febbraio 2016 a settembre 2017 sono state testate 1295 pazienti di 27 strutture distribuite in due regioni, Lazio e Lombardia. “Prima del test la decisione terapeutica era orientata alla sola ormonoterapia nel 46% dei casi e alla chemioterapia in associazione all’ormonoterapia nel 51% – continua il prof. Cognetti –. A seguito del test la scelta è cambiata in modo tangibile: si è deciso di ricorrere alla sola ormonoterapia nel 66% delle pazienti e alla chemioterapia in associazione all’ormonoterapia soltanto nel 33%. L’utilizzo del test Oncotype DX ha quindi permesso di evitare la somministrazione della chemioterapia nel 50% delle donne a cui era stata inizialmente prescritta. La forte diminuzione dell’utilizzo improprio della chemioterapia, che è stato evidenziato anche da altri test genomici, può tradursi, da un lato, in un beneficio clinico per le pazienti che non vengono più esposte ad un eccesso di trattamento e al relativo rischio di tossicità immediate e tardive, dall’altro in un impatto favorevole sulla spesa sanitaria che oggi rappresenta un elemento di importanza fondamentale con cui anche i clinici devono confrontarsi”. Un risparmio di risorse che può essere ottenuto anche grazie a diagnosi sempre più precoci. “La sfida è individuare in poche gocce di sangue i primissimi segni del cancro – spiega Massimo Cristofanilli professore di Medicina e direttore Precision Medicine alla Northwestern University di Chicago -. È la biopsia liquida, una tecnologia innovativa molto promettente, utilizzata oggi per la prevenzione secondaria durante il follow up, cioè per scoprire la formazione di eventuali recidive e metastasi nelle donne che hanno già sviluppato il tumore. Le tecnologie attuali ci permettono di capire nel 70-75% dei casi se la malattia svilupperà metastasi. Altre applicazioni sono in fase di sperimentazione: l’obiettivo è scoprire la malattia in fase preclinica, risultato che la mammografia non è in grado di ottenere. La biopsia liquida inoltre è facilmente ripetibile nel tempo, bastano 8-10 millilitri di sangue, a differenza di quella tradizionale che richiede l’escissione del tessuto tumorale”. “Oggi si sta affacciando una nuova classe di farmaci target, che intervengono nel rallentare la progressione del tumore del seno, inibendo due proteine chiamate chinasi ciclina-dipendente 4 e 6 (CDK-4/6) – continua il prof. Cristofanilli -. Queste molecole hanno dimostrato di essere superiori rispetto alla terapia standard nella fase metastatica e studi in corso hanno evidenziato la loro efficacia anche nella malattia di nuova diagnosi come trattamento preoperatorio. Nell’immediato le sfide riguardano i casi di tumore del seno più difficili da trattare: quelli triplo negativi e con metastasi cerebrali. In questi casi nuove prospettive sono offerte dall’immunoterapia”. “La stimolazione del sistema immunitario – afferma il prof. Cognetti – funziona soltanto in poche donne con tumore del seno, ma in questi casi con risultati davvero importanti, soprattutto nelle forme triplo negative, che costituiscono circa il 15% del totale. Nelle pazienti resistenti inoltre sono in fase di sperimentazione le combinazioni di immunoterapia e chemioterapia che può favorire la risposta del sistema immune”. Nuovi farmaci biologici come gli inibitori di Parp sono più efficaci della chemioterapia nelle pazienti che presentano mutazioni del gene BRCA, perché agiscono direttamente sui danni del DNA.
“Dobbiamo parlare di diversi sottotipi di questa neoplasia, definiti in relazione alle alterazioni molecolari – sottolinea il prof. Giuseppe Curigliano, professore di Oncologia Medica all’Università di Milano e direttore Divisione Sviluppo di Nuovi Farmaci per Terapie Innovative all’Istituto Europeo di Oncologia -. Questo ci consente di scegliere in maniera altamente selettiva il trattamento in relazione alle caratteristiche di ogni sottogruppo. Inoltre, nei tumori del seno che esprimono il gene HER2 (una mutazione presente in circa un quinto delle pazienti), sono in corso studi su anticorpi bifunzionali, che da un lato attaccano il bersaglio molecolare (HER2), dall’altro attivano il sistema immunitario. Queste molecole sono molto potenti perché coniugano le caratteristiche delle terapie target e dell’immunoterapia. I risultati iniziali nella malattia metastatica sono estremamente promettenti, con una risposta globale raggiunta nel 50% delle pazienti pretrattate. In fase neoadiuvante, cioè prima della chirurgia, nelle forme HER2 positive sono inoltre disponibili associazioni di diversi farmaci anti-HER2 e ormonoterapia, evitando così il ricorso alla chemioterapia e ottenendo gli stessi risultati in termini di efficacia. Sono in corso sperimentazioni per verificare quali pazienti possano giovarsi di questo approccio”. Proprio nei tumori del seno HER2 positivi si stanno aprendo nuove strade nella comprensione dei meccanismi di resistenza alle terapie. “In circa il 90% delle pazienti con malattia metastatica che esprimono il gene HER2, dopo 3-5 anni i farmaci non sono più efficaci – conclude il prof. Maurizio Scaltriti, direttore dello Human Oncology and Pathogenesis Program al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York -. In studi condotti presso il nostro centro abbiamo evidenziato che, in alcune pazienti, si sviluppano mutazioni del gene HER2. E proprio la loro presenza determina la resistenza alle terapie. Abbiamo individuato queste alterazioni analizzando il DNA circolante nel sangue, un tipo di biopsia liquida. Inoltre in queste pazienti che presentano sia la sovraespressione che la mutazione di HER2 è risultata particolarmente efficace una nuova molecola, neratinib, recentemente approvata dall’ente regolatorio americano (FDA). Neratinib è il primo trattamento adiuvante ‘esteso’ per questo tipo di pazienti perché è indicato dopo una prima terapia adiuvante per diminuire ancora di più il ritorno della malattia.”