L’analisi della geochimica dei gas del suolo in aree sismicamente attive rappresenta uno strumento efficace per individuare faglie sepolte (non visibili in superficie) e fornisce un importante contributo nel discriminare la migrazione del gas legata all’attività sismica. A questi risultati è giunta una ricerca, iniziata nel 2012 e durata circa 3 anni, condotta dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), in collaborazione con il Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Ferrara (UNIFE). Lo studio Learning from soil gas change and isotopic signatures during 2012 Emilia seismic sequence, pubblicato su Scientific Reports del gruppo Nature (www.nature.com/articles/s41598-017-14500-y) ha identificato e misurato, per la prima volta, un marcato incremento (fino a tre ordini di grandezza) delle concentrazioni di metano (CH4), idrogeno (H2) e anidride carbonica (CO2) nei suoli, durante la sequenza sismica del 2012, rispetto ai valori pre-sisma.
“L’incremento delle concentrazioni durante il terremoto e nei mesi successivi”, spiega Alessandra Sciarra, ricercatrice INGV e primo autore del lavoro, “è stato favorito dalla dilatazione crostale legata all’attività sismica che ha permesso la risalita di geogas verso la superficie. Le concentrazioni anomale di gas hanno evidenziato una faglia sepolta in direzione est-ovest che collega 3 zone con assenza di vegetazione ed emanazioni gassose, note come macroseeps”.
È infatti noto in letteratura che i terremoti e la conseguente deformazione crostale possano alterare le proprietà idrauliche dei suoli, come porosità e permeabilità, favorendo la migrazione di fluidi lungo vie preferenziali, a causa delle variazioni di pressione e temperatura.
“Lo studio della geochimica legata ai terremoti è complesso”, continua la ricercatrice dell’INGV. “Generalmente le misure geochimiche vengono effettuate solo dopo che un evento sismico si è verificato, precludendo così la possibilità di confrontare i dati pre e post evento. In questo lavoro, invece, le concentrazioni co-sismiche e post-sismiche sono state eccezionalmente confrontate con dati del 2008”.
La zona di studio, conosciuta con il nome di “Terre Calde di Medolla” è un’area agricola dove la presenza di elevate temperature dei suoli (fino a 48°C) ed emissioni naturali di metano è nota fin dal 1893. Nel 2008 era stato già condotto uno studio geochimico dei gas dei suoli proprio per caratterizzare la distribuzione e l’origine del metano. Dopo la sequenza sismica del 2012 si è ripetuto il monitoraggio per capire cosa era cambiato.
“L’analisi degli isotopi del metano e della CO2 sui macroseeps, per risalire all’origine dei gas, ha evidenziato due distinte sorgenti, una profonda e termogenica, l’altra superficiale (microbica) dovuta all’alterazione della materia organica, il cui diverso contributo è variato nel tempo”, prosegue Sciarra. “In particolare con il terremoto vi è stato uno scuotimento degli strati più superficiali (Plio-Pleitocenici), che ha accresciuto il fenomeno naturale di emanazione di metano già esistente nella zona di Medolla, incrementando la migrazione dagli strati più superficiali”.
Il monitoraggio geochimico a lungo termine ha permesso di identificare un trend nella distribuzione temporale delle specie gassose. Infatti, dopo una variazione iniziale della distribuzione dei gas nel suolo, legata all’attività sismica, le concentrazioni dei gas nel 2015 stanno lentamente tornando ai valori pre-terremoto, molto probabilmente per una parziale chiusura delle vie di migrazione, dopo che la sovrapressione generata dal sisma si è ridotta.
“Da qui l’idea” conclude Sciarra “di avviare ulteriori indagini per correlare le misure geochimiche con indagini geoelettriche, per definire la geometria della faglia sepolta, e tecniche atte a misurare le deformazioni della superficie terrestre. I risultati ottenuti, potrebbero incoraggiare la ricerca sulla geochimica dei gas nel suolo sulle aree sismicamente attive, evidenziando inoltre l’importanza di avere un set di dati prima, durante e dopo i terremoti.”