Si chiamava Antonio Cancedda ed era nato a Cagliari il 16 settembre 1948. Era stato uno dei primi militari a denunciare i possibili pericoli derivanti dall’utilizzo di determinati armamenti contenenti uranio impoverito. Cancedda, a differenza di molti altri che hanno avuto la sua stessa triste sorte, non era mai stato in missione all’estero, ma aveva operato nei poligoni sardi; nel 2016, nel corso della sua audizione davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito, aveva raccontato di come insieme ad altri commilitoni si occupasse di raccogliere a mani nude ciò che restava sul campo dopo le esercitazioni a fuoco e anche della ‘pulizia’ dei mezzi corazzati. Nel 1971 Antonio aveva scoperto di essere affetto da linfoma di Hodgkin e contro questo male ha combattuto per anni. Lo stesso male che, con le conseguenze dovute alle cure potenti a cui era stato sottoposto, lo ha portato alla morte pochi giorni fa. L’avvocato Angelo Fiore Tartaglia, ovvero il legale che ha difeso Cancedda e la maggior parte delle vittime dell’uranio impoverito perché fosse loro riconosciuto un indennizzo dallo Stato italiano, e che ha ad oggi cento sentenze in attivo, ne ha annunciato la morte attraverso la propria pagina Facebook: “Ci ha lasciati il mio amico Antonio Cancedda” – scrive Tartaglia, il quale si è impegnato pubblicamente per dare giustizia a colui che era ormai diventato un punto fermo per tutta quella che possiamo definire ‘vicenda uranio impoverito’ -“Antonio era un galantuomo, un uomo forte, generoso e di grande garbo. Era informato su ogni cosa ed aveva una cultura notevolmente superiore alla media. Da tempo combatteva contro il male che lo aveva colpito dopo che da militare aveva prestato servizio nei poligoni sardi. Verso di me nutriva sentimenti di profonda e sincera stima. È stato uno dei pochi miei assistiti che dalla Sardegna è venuto fino a Roma al funerale di mio padre. Come me Antonio era devoto della Madonna che certamente lo accoglierà nella Sua luce. Caro Antonio ti rinnovo la promessa: il tuo grande sacrificio non resterà vano“.
Scriveva lo stesso Antonio pochi mesi fa sulla sua pagina Facebook attraverso la quale aveva più volte denunciato la sua situazione e quella di tutti i militari ed ex militari ai quali era toccata la medesima sorte: “La vita è una gran bella cosa, poi la storia, non sempre né rispetta i canoni. Ma la storia siamo noi, sono gli uomini che la determinano, spesso inconsciamente, per carattere o per illusione, per convinzione o per speranza. Ma ciò che fa grandi dentro è la volontà e la convinzione di operare più per gli altri che per noi stessi, a fatti non a parole. I risultati del sacrificio per far stare bene gli altri, ad iniziare dai propri cari sono appagamento reale dell’anima e non certo delle proprie tasche. Ahimè, purtroppo molti si convincono di fare del bene agli altri, di fare sacrifici per il prossimo, mettendosi a disposizione di chi ha bisogno d’aiuto e a fine mese o dell’operazione passar alla cassa per le spettanze, del resto si deve pur vivere, no? Allora sarà bene che rivedano le troppe convinzioni che inducono a reputarsi benefattori. Il benefattore è colui che fa del bene senza raccogliere niente, cioè il nulla assoluto, se non un sorriso o un affettuoso abbraccio“. E ancora: “Accusare gli altri di tradimento, di sputare veleno o quant’altro può essere anche utile a far credere d’essere Vittima, ma difficilmente riuscirà a convincere chi Vittima lo è veramente, e non ha l’abitudine a piangere o piangersi addosso, perché diventare Vittima è come vaccinarsi, si consumano le lacrime, si riempie la sporta di tanta rabbia, ma si cerca di vivere il più possibile bene… anche fosse solo per un attimo, perché si acquisisce la coscienza del proprio status e si tende a sfruttare ogni secondo di benessere che ti passa davanti. Potrebbe essere l’ultimo, e allora non lo si spreca piangendo con te stesso o per impietosire gli altri. Questo è essere Vittima“.
Una vita dura quella di Antonio, che ha vissuto quarant’anni da marito, da padre e contemporaneamente da malato oncologico che deve lottare ogni giorno con la propria malattia, ma soprattutto che pone l’amore per la vita davanti ad ogni cosa, e in questo sentimento trova la forza per caricarsi questa enorme croce sulle spalle e andare avanti, sorridendo, amando e facendo del bene. Perché Cancedda non si era limitato a combattere contro il suo linfoma: era stato tra i soci fondatori dell’Associazione Sarda Assistenza Emopatici (divenuta dal 2003 A.S.A.E. Ail Cagliari) all’ospedale oncologico di Cagliari insieme al prof. Giorgio Broccia, primario del reparto di ematologia. Questa sua attività di volontariato lo avevo portato ad essere premiato per ben tre volte dai presidenti Ciampi, Scalfaro e Napolitano, ovvero i rappresentanti di quello stesso Stato che non ha voluto ammettere le proprie responsabilità nella malattia, e ora nella morte, di Antonio.
L’ex Sergente dell’Esercito Italiano ha raccontato il suo calvario nella relazione rilasciata di fronte alla Commissione Uranio: “Già nel 1971 inizio ad accusare segni di stanchezza, difficoltà agli sforzi, sudorazione intensa e graduale deperimento. Il lavoro è troppo importante per la famiglia che va ingrandendosi infatti è in arrivo un altro figlio un maschietto stringo i denti alterno le giornate di lavoro ad assenze per malattia cerco di non mollare, la gioia per l’attesa del secondo figlio un maschio si mischia presto al dolore. Purtroppo soccombo alla malattia. Prima a casa con sudorazione intensa e la febbre altissima poi il ricovero in Ospedale Sanatoriale dove viene diagnosticata forse a dire dei medici una forma tubercolare. E’ un dramma fisico ma soprattutto psichico. Mi sono sempre considerato un ardito, uno sportivo, in caserma ero conosciuto per la costanza nell’allenarmi quotidianamente nel mezzo fondo e nella cura del fisico, partecipando a diverse iniziative sportive militari tra le quali quelle di Pentathlon Militare a livello Divisionale. I familiari mi ammiravano per il coraggio e l’abnegazione nella vita. E’ un crollo totale. Passano i mesi la situazione peggiora, anzi precipita le terapie non sortiscono nessun effetto la macchia presente sul mediastino nel RX Torace e nelle Strattografie non si riduce. Mio padre interviene in modo decisivo e tramite la Prefettura si organizza un viaggio della speranza a Roma all’Ospedale Forlanini. Le condizioni sono disperate il mio peso è di soli 40 kg ho superato fortunatamente una crisi cardiaca i giorni prima della partenza. Parto accompagnato da un medico del reparto ospedaliero e da mio Padre. Vengo sicuramente “dopato” per affrontare il viaggio tant’è che all’arrivo in ospedale perdo conoscenza e mi risveglio l’indomani: un piccolo intervento in anestesia locale per l’asportazione di un linfonodo dal collo, da essere analizzato. Analisi effettuate in anamopatologia al Forlanini di Roma e successivamente a Bologna confermano la diagnosi tremenda MORBO DI HODGKING, mi prevedono al massimo qualche mese di vita. Gettando nello sconforto la mia giovane moglie, mio padre, mia madre, sorelle e fratello anch’esso militare, Sergente del genio Pontieri a Piacenza. Familiari tutti increduli per la cattiva sorte del loro congiunto. Temporaneamente mi viene tenuta nascosta la nuova diagnosi. Dopo anni di cure appropriate una prima remissione una ricaduta altri anni di cure (chemioterapia, cobaltoterapia,asportazione della milza) con dosi non certamente mirate come avviene oggi quindi in quantità massicce come si usava 30 anni fa quando non si conosceva a fondo la reale efficacia della terapia sul soggetto e quali effetti collaterali comportasse si cercava di ottenere il massimo dell’efficacia da esse. Tutto ciò se da un lato ha dato buoni risultati dall’altro ha minato il fisico nella sua integrità lasciando segni molto evidenti negli altri organi (sterilità precoce, fibrosi, enfisema polmonare ispessimento delle pareti vascolari, blocco delle coronarie, cardiopatia ischemica, tre bypass coronarici, plurinfartuato, inserimento di pace-maker; asportazione dentaria fin dalle prime cure chemioterapiche, per prevenire infezioni e il formarsi di granulomi, asportazione linfonodi, accentuata predisposizione alle bronchiti e alle infezioni). Dal 1971 con i primi sintomi ad oggi un calvario che continua senza sosta alcuna, da 45 anni con la paura costante che da un giorno all’altro si debba ricominciare tutto da capo. Per la sopravvivenza ancora oggi devo assumere terapia di contenimento e cura che consiste in una pluralità di farmaci. L’aspetto psicologico lo lascio alla riflessione di tutti i commissari presenti”.
I militari, i carabinieri e tutti coloro che sono preposti a difendere, proteggere e ‘custodire’, dovrebbero essere per noi italiani motivo di orgoglio e di vanto. Dovrebbero essere, e per molti di noi lo sono. Ma se lo Stato stesso volta loro le spalle nel momento in cui si ritrovano a vivere tragedie simili, come possiamo pretendere che vengano rispettati da chi in genere li avversa? Come possiamo pretendere che un militare possa compiere serenamente il proprio dovere sapendo che in casi simili non ha diritto di ottenere ciò che gli spetta? Avvocati come Fiore Tartaglia hanno fatto del riconoscimento di questo diritto una vera e propria missione. Ed è per questo, promette il legale, che la morte di Antonio non sarà vana: ottenere giustizia per tutti coloro che si trovano ancora oggi nella sua stessa situazione era uno dei suoi più grandi desideri, e l’auspicio è che ciò possa avvenire al più presto e nel più trasparente dei modi possibile.