Si è tenuto ieri l’incontro del Tavolo Tecnico presso la sede operativa del Dipartimento della Protezione Civile con l’Agenzia Spaziale Italiana. Il Tavolo è stato istituito per discutere ed analizzare le strategie da attuare per il rientro in atmosfera della stazione spaziale cinese Tiangong-1, il Palazzo Celeste – che dal 16 marzo 2016 ha smesso di funzionare, – e l’eventuale coinvolgimento del territorio nazionale.
Ad oggi, la data di rientro della stazione cinese è stimata al 1 aprile 2018 alle ore 10:25 Utc (12:25 ora italiana), con un intervallo di incertezza di circa 48 ore. Ma solo nelle ultimissime fasi si potrà definire meglio la data e le parti del globo terrestre coinvolte.
La conferma dell’area interessata avverrà con un preavviso, sull’eventuale impatto, che potrebbe essere inferiore ai 40 minuti. Attualmente la stazione sorvola il territorio italiano tre o quattro volte al giorno con una distanza temporale di 90 minuti tra un sorvolo e l’altro e ad una quota compresa tra i 200 e 220 km di altitudine.
La possibile area nazionale interessata è quella centro-meridionale, che parte più o meno dall’area dell’Emilia Romagna e va verso il sud, stando a quanto riferisce la Protezione Civile.
Diversi sensori di osservazione terrestri stanno seguendo la stazione nel suo percorso orbitale, per registrare la sua posizione ed il tasso di decadimento: radar, sensori ottici e sistemi di tracciamento laser. Secondo Claudio Portelli, responsabile dell’Agenzia spaziale italiana per lo studio dei detriti spaziali e il controllo degli asteroidi, sarebbero davvero basse le probabilità che i frammenti del Palazzo Celeste possano cadere sull’Italia – circa lo 0,2%.
“Abbiamo finestre temporali molto limitate e dunque – ha sottolineato il capo della protezione Civile Angelo Borrelli – se le ultime analisi confermeranno la possibilità che frammenti del satellite possano interessare il nostro paese, abbiamo l’esigenza di dare un’informazione più chiara possibile alla cittadinanza. I media avranno dunque un ruolo fondamentale per diffondere le informazioni“.
“Essendo scesa alla quota di 220 chilometri, la stazione spaziale cinese è diventata visibile a occhio nudo di notte, anche se la sua luminosità è più debole rispetto a quella della Stazione Spaziale Internazionale,” spiega all’ANSA Paolo Volpini, dell’Unione Astrofili Italiani (Uai).
Il rientro della stazione spaziale cinese Tiangong-1
Tiangong-1 – spiega una nota dell’Istituto di scienza e tecnologie dell’informazione ‘A. Faedo’ del Cnr (Isti-Cnr) – è stata la prima stazione spaziale cinese, lanciata il 29 settembre 2011 su un’orbita approssimativamente circolare, a circa 350 km di altezza e inclinata di poco meno di 43 gradi rispetto all’equatore terrestre. Nel novembre dello stesso anno è stata raggiunta e agganciata dalla navicella Shenzhou-8 senza equipaggio, mentre i primi tre astronauti vi sono saliti a bordo, trasportati da Shenzhou-9, nel giugno 2012, trascorrendovi 9 giorni e mezzo. Il secondo e ultimo equipaggio di tre astronauti si è agganciato alla stazione, con Shenzhou-10, nel giugno 2013, trascorrendovi 11 giorni e mezzo.
Da allora Tiangong-1 ha continuato a essere utilizzata, disabitata, per condurre una serie di test tecnologici, con l’obiettivo di de-orbitarla, a fine missione, con un rientro guidato nella cosiddetta South Pacific Ocean Unpopulated Area (SPOUA), una specie di cimitero dei satelliti in una zona pressoché deserta dell’Oceano Pacifico meridionale. Purtroppo, però, il 16 marzo 2016, il centro di controllo a terra ha perso la capacità, pare in maniera irreversibile, di comunicare e impartire comandi al veicolo spaziale.
Nei due anni trascorsi da allora, Tiangong-1 ha perciò perduto progressivamente quota, perché il continuo impatto con le molecole di atmosfera residua presenti anche a quelle altezze le ha sottratto incessantemente energia. Ed è questo processo completamente naturale che farà alla fine precipitare la stazione spaziale sulla terra senza controllo, non potendo essere più programmata un’accensione dei motori per un rientro guidato.
Dove può avvenire il rientro?
In linea di principio- prosegue la nota del Cnr – il rientro potrebbe avvenire in qualunque località del pianeta compresa tra i 43 gradi di latitudine sud e i 43 gradi di latitudine nord. Tuttavia, tenendo conto che i frammenti, a causa di un’eventuale esplosione ad alta quota, potrebbero allontanarsi anche di un centinaio di km rispetto alla traiettoria originaria, le zone potenzialmente a rischio per la caduta di detriti devono essere estese di un grado di latitudine, quindi l’area da tenere sotto osservazione è in realtà quella compresa tra i 44 gradi di latitudine sud e i 44 gradi di latitudine nord. L’Italia è quindi divisa in due, con le località a nord del 44° parallelo escluse a priori da qualunque conseguenza, e quelle a sud potenzialmente a rischio. Tenendo conto della distribuzione degli oceani e delle terre emerse, e dell’inclinazione dell’orbita rispetto all’equatore, se i detriti di distribuissero su un arco di 800 km, la probabilità a priori che cadano tutti in mare è del 62%. Ma se i detriti si disperdessero su un arco di 2000 km, la probabilità che nessuno di essi precipiti sulla terraferma scenderebbe al di sotto del 50%. Quanto infine alla probabilità a priori che il rientro avvenga nella fascia di latitudine compresa tra i 35 e i 43 gradi nord, essa si aggira intorno al 18%.