Nella fase post acuta dell’infarto, nell’angina cronica stabile ad alto rischio e nei pazienti con malattia periferica, il cosiddetto “rischio residuo” è ancora molto alto. Diversi studi registrativi hanno, infatti, dimostrato che dal primo anno ai successivi cinque dall’evento infartuale c’è una recidiva di eventi cardiovascolari avversi, inclusa mortalità per cause cardiovascolari, di circa il 20%. Un paziente su cinque, dunque, dopo 3-4 anni da un infarto, può subire o una ri-ospedalizzazione, o un nuovo evento infartuale, o un ictus, oppure un evento fatale. Nei Paesi occidentali c’è, dunque, una frequenza degli eventi avversi molto elevata, anche nei pazienti che aderiscono correttamente alle terapie raccomandate.
“Negli ultimi 25 anni sono stati realizzati numerosi studi relativi alla coronaropatia stabile e alla malattia periferica ma, in realtà, non si è fatto altro che potenziare la terapia antiaggregante, senza mai osservare una riduzione della mortalità – ha dichiarato il Dottor Leonardo De Luca, Coordinatore Comitato Scientifico ANMCO , intervenuto al simposio dal titolo ?Studio Compass: rivaroxaban vince una nuova sfida nelle coronaropatie e arteriopatie periferiche’, svoltosi ieri all’interno del Congresso Nazionale ANMCO (Rimini, 31 maggio – 2 giugno 2018) – . Serviva qualcos’altro – continua il Dottor De Luca – per diminuire questa frequenza di eventi. Lo Studio Compass ha dimostrato l’efficacia di questo nuovo approccio sinergico, dando vita a un nuovo paradigma terapeutico: in pazienti affetti da coronaropatie e/o arteriopatie periferiche croniche, con rivaroxaban (anticoagulante orale ad azione diretta) utilizzato a dosaggio vascolare (2,5 mg x 2/die) e aspirina (antiaggregante) 100 mg/die, si è ottenuta una riduzione del rischio combinato di ictus, infarto del miocardio e morte per cause cardiovascolari del 24%, sia pur incrementando, come atteso, le emorragie maggiori, ma non quelle fatali, nè quelle intracraniche, rispetto alla singola aspirina. Non solo. Lo Studio – aggiunge il Dottor De Luca – ci dice che c’è ancora una possibilità terapeutica nei pazienti con malattia periferica degli arti inferiori, ossia la riduzione di eventi avversi che includono l’ischemia dell’arto. L’aggiunta di rivaroxaban all’aspirina ha ridotto le amputazioni maggiori da causa vascolare di circa il 70%. E questa è una vera rivoluzione terapeutica, importantissima sia per il clinico che per il paziente, considerando che la malattia periferica è praticamente orfana di terapie“.
Nel corso del Congresso ANMCO sono state prese in analisi anche altre categorie di pazienti che necessitano di una terapia anticoagulante, pur avendo comorbilità che necessitano di attenzione nell’utilizzo della terapia anticoagulante stessa. Nel caso specifico ci riferiamo ai pazienti affetti da Malattia Renale Cronica (CKD), che sono stati al centro di un altro simposio, tenutosi oggi, dal titolo “L’esperienza clinica con rivaroxaban: sicurezza ed efficacia nel paziente fragile”.
Le patologie cardiovascolari sono la principale fonte di mortalità e morbidità nei pazienti affetti da malattia renale cronica, con un’incidenza direttamente proporzionale al grado di compromissione della funzione renale stessa. Nell’ambito della patologia cardiovascolare che impatta sull’outcome clinico di questi pazienti, un peso fondamentale è rappresentato dall’incidenza di aritmie, in particolare della Fibrillazione Atriale che, in questi casi, raggiunge un’incidenza del 7% circa.
“Anche nei pazienti affetti da malattia renale cronica è indispensabile somministrare una terapia anticoagulante in grado di prevenire le complicanze tromboemboliche correlate alla presenza di FA, tenendo presente che, di per sé, questi pazienti, rispetto alla popolazione generale, presentano un rischio maggiore di ictus e sanguinamenti – ha dichiarato il Dottor Luca Di Lullo, Dirigente Medico presso l’U.O.C. Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale “L. Parodi – Delfino” di Colleferro (Roma) – Rischio che aumenta ulteriormente nei pazienti in trattamento dialitico. Per questo motivo, considerando anche gli ultimi dati di letteratura, che confermano un certo grado di pericolosità della terapia con warfarin in questi soggetti, il trattamento anticoagulante con antagonisti della vitamina K, viene prescritto con estrema cautela”.
Alla luce di ciò, l’avvento degli anticoagulanti ad azione diretta ha destato molto interesse, anche per il loro possibile impiego nella popolazione di pazienti affetti da malattia renale. Con opportune riduzioni di dosaggio, infatti, questi farmaci possono essere somministrati fino a valori di filtrato glomerulare (eGFR) pari a 15 ml/min/1.73m2.
Nell’ambito dei NOACs, rivaroxaban ha evidenziato un ottimo profilo di sicurezza ed efficacia nei pazienti con compromissione della funzione renale, con risultati clinici superiori a quelli evidenziati con warfarin.
“Diverse recenti review hanno posto in primo piano il ruolo del dosaggio di 15 mg al giorno di rivaroxaban in pazienti con eGFR compreso tra 15 e 49 ml/min/1.73m2 – aggiunge il Dottor Di Lullo – evidenziando non solo una riduzione dei sanguinamenti maggiori e degli eventi tromboembolici rispetto a warfarin, ma anche un impatto favorevole sulla prognosi renale, come la riduzione degli episodi di danno renale acuto e del rischio di progressione della patologia, elemento che trova riscontro anche nell’analisi del sottogruppo di pazienti con malattia renale arruolati nello studio registrativo ROCKET – AF. Sostanzialmente – conclude il Dottor Di Lullo – nei pazienti con malattia renale cronica, l’impiego di rivaroxaban al dosaggio di 15 mg al giorno deve essere incoraggiato sia per l’efficacia e sicurezza evidenziate nella letteratura scientifica, sia per elementi di pratica clinica, quali la monosomministarzione giornaliera, fattore molto importante per pazienti politrattati come quelli che stiamo prendendo in considerazione”.