Il lato femminile di Terra Madre Salone del Gusto

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Come si può conciliare una visione moderna del ruolo della donna, che non la veda realizzarsi soprattutto nell’atto di nutrire e accudire, con la salvaguardia delle tradizioni, un rapporto più armonico con la natura, la riscoperta della cucina e della convivialità?

È questa la provocazione che lanciano quattro donne d’eccezione al pubblico di Terra Madre Salone del Gusto, Torino, 20-24 settembre 2018: la cuoca e vicepresidente di Slow Food Alice Waters, storica attivista del cibo e promotrice della rete degli orti scolastici

Negli Stati Uniti, la giornalista e scrittrice Maria Canabal, fondatrice e presidente del Parabere Forum dedicato alle donne del mondo gastronomico, l’attrice italiana Lella Costa e Roberta Mazzanti, consulente editoriale da sempre particolarmente attenta al rapporto fra letteratura femminile e cultura civile.

L’occasione è la conferenza Terra liberata. Dialogo semiserio sulla caduta dell’angelo del focolare che fa parte del palinsesto di incontri messo a punto in collaborazione con il Circolo dei Lettori e appena pubblicato sul sito della più importante manifestazione internazionale dedicata al cibo buono, pulito, giusto e sano.

Se trattata in modo semplicistico, infatti, la relazione tra la donna, la terra e il cibo potrebbe condurre a una visione misogina, figlia di schemi ormai superati che non riescono a concepire un rapporto libero, nuovo e innovativo. Dall’altro lato, ci si chiede come evitare di cadere nell’estremo opposto, cioè l’emancipazione della donna secondo tradizionali modelli maschili, che la spingano a vivere al passo con i valori e le esigenze del capitalismo.

A Terra Madre Salone del Gusto l’agricoltura è donna

Le donne lavorano e creano lavoro in agricoltura e nell’allevamento, operano nella filiera alimentare, sostengono l’intera economia familiare dei nuclei contadini nel Sud del mondo e, in troppi casi, sono sfruttate nei campi come braccianti stagionali e costrette a volte a una vera e propria schiavitù.

Spesso questo lavoro resta sconosciuto o viene dato per scontato, mentre i grandi chef (uomini) conquistano i palcoscenici della televisione. Ma a Terra Madre Salone del Gusto sappiamo bene quanto il ruolo di milioni di contadine, allevatrici, pastore, cuoche sia l’architrave dell’agricoltura di piccola scala e un sostegno fondamentale per preservarne le tradizioni, la ricchezza, le speranze per il domani.

Tra le migliaia di delegati in arrivo per l’appuntamento di Torino c’è la giovanissima cilena Isabel Angelica Inayao Sepulveda. Insieme ad altre 18 donne riunite nella Agrupación por la biodiversidad de Paillaco ha fondato il gruppo delle “mujeres rurales”, parte della rete locale di Slow Food, che producono ortaggi con metodi agroecologici, ma sono anche raccoglitrici di erbe e frutti selvatici che vendono ogni settimana direttamente in un mercato locale. La loro specialità sono le marmellate a base di murta, piccole bacche rosse di un arbusto originario del sud del Cile.

È giovane e indigena anche Akeisha Clarke, che partecipa per la prima volta alla più importante manifestazione agroalimentare del mondo in rappresentanza della comunità di pescatori della Piccola Martinica, a poca distanza dall’isola di Grenada, entrata da poco a far parte del progetto Slow Food Caribe. Akeisha opera in un settore, quello della piccola pesca artigianale, in cui gli addetti sono per la maggior parte uomini e il ruolo della donna non è riconosciuto.

Helen Nguya porta con sé oltre 35 anni di esperienza nella realizzazione di progetti di sviluppo per le comunità della Tanzania a partire dal cibo e dall’agricoltura sostenibile. È stata artefice dell’organizzazione locale Trmega (Training, Research, Monitoring and Evaluation on Gender and Aids), un punto di riferimento per persone vulnerabili come vedove, bambini, donne molto povere e malati di Hiv e Aids, che si fanno forza lavorando insieme. Nel 2004 è entrata in contatto con Slow Food e oggi è tra i più convinti promotori del progetto Orti in Africa che contribuisce a portare avanti insieme al Presidio del miele di ape melipona di Arusha e altre iniziative di Slow Food in Tanzania.

Dall’Italia arriva la giovanissima Ilaria Minichiello, della Comunità del cibo dei Coltivatori dell’oliva ravece delle colline dell’Ufita e del Calore. Nata ad Ariano Irpino, in provincia di Avellino, ha 24 anni, e vive a Grottaminarda dove ha appena rilevato l’azienda olearia della madre: 700 piante di uliveti secolari e impianti giovani di cultivar locali. Il suo sogno è aprire un piccolo agriturismo “fatto come si deve”, cioè in cui coltivare e cucinare i prodotti dell’azienda, far partecipare gli ospiti alle fasi della produzione e trasformazione in cucina.

Friulane invece sono Annalisa e Jessica Celant che nella malga Costa Cervera producono il formadi o çuç di mont del Presidio Slow Food. Le due sorelle sono l’ultima generazione della famiglia di malgari del Friuli di cui si abbia attestazione più antica: possiamo andare indietro fino al padre del bisnonno nell’800, il più anziano patriarca dei malgari della regione.

Nel programma dei Forum di Terra Madre non mancano gli appuntamenti dedicati alle questioni di genere, dal ruolo delle donne indigene quali agenti di resistenza al cambiamento climatico alle “regine dei mari” della rete Slow Fish che dimostrano come – anche in un settore tradizionalmente dominato dagli uomini – le donne possano far valere il loro patrimonio di conoscenze ed esperienze.

Oltre alla voce delle tante delegate, potremo ascoltare anche quella di grandi ospiti che hanno contribuito a rendere il mondo della terra e del cibo più buono, pulito e giusto.

Tra le presenze confermate, nel calendario di Terra Madre Salone del Gusto ci sono anche l’ambientalista e attivista indiana Sunita Narain, indicata nel 2016 dal Time come una tra le 100 persone più influenti al mondo e intervistata da Leonardo Di Caprio per il documentario Before the Flood, e la chef Ana Roš, incoronata nel 2017 miglior cuoca del mondo secondo The World’s 50 Best Restaurants, che ci porta alla scoperta di una cucina personale e graffiante, quella proposta nel suo ristorante Hiša Franko di Caporetto, nell’alto Isonzo al confine con il Friuli Venezia Giulia.

E poi ci sono le protagoniste della Fucina pizza e pane e del Cacao camp, le due aree tematiche che con laboratori e incontri approfondiscono rispettivamente i temi delle farine e dei lievitati (pane, pizza e pasticceria) e della filiera del “cibo degli dei”.

Pizzaiola doc è Petra Antolini, che a Pescantina (Vr) gestisce al Settimo Cielo e Casa Petra. La sua pizza «non è gourmet, non è napoletana, non è romana, ha un bel cornicione, è morbida e croccante allo stesso tempo. Sono fortunata perché, avendo iniziato a lavorare in cucina, conosco i prodotti. E poi vivo in Valpolicella, un luogo bellissimo e ricco di biodiversità sebbene alcuni ingredienti arrivino dal resto d’Italia come il fior di latte di Agerola, il pomodoro vesuviano, i capperi del Presidio Slow Food». Eppure, nonostante tutto, Petra è convinta che «la pizza debba essere alla portata di tutti e dunque i prezzi debbano essere ragionevoli».

Dalla Costa D’Avorio arriva Estelle Conan, la donna grazie alla quale è nata la cooperativa Scay Scoops: qui, dove la produzione di cacao è massiccia e su larga scala, 143 produttori di piccola scala hanno deciso di abbracciare pratiche del tutto naturali nelle loro piantagioni opponendosi alle più diffuse produzioni intensive. Il compenso equo, garantito dalla certificazione biologica, permette ai produttori di migliorare le condizioni di vita della propria comunità e le tecniche di lavoro, grazie alle quali il cacao viene preservato nel modo migliore, e con esso, tutta la sua ricchezza aromatica.

Dai campi alle cucine, quanto vale il lavoro delle donne

Secondo la Fao, se le donne avessero pari accesso alle risorse – terra, credito, istruzione, servizi di estensione agricola – potrebbero aumentare tra il 20% e il 30% la loro produzione agricola, e portare 150 degli 815 milioni di persone che oggi soffrono la fame fuori dall’insicurezza alimentare.

Il contributo femminile al settore primario vale all’incirca il 43% della forza lavoro totale[1], ma i dati complessivi ci dicono poco sull’impatto che ha sulle diverse aree del mondo. Dal 20% circa del continente americano si passa infatti a quasi il 50% in Africa, dove le donne sono responsabili anche dell’80% del lavoro associato alle attività domestiche rurali, come la raccolta di acqua e legna da ardere, la preparazione e la cottura dei pasti, la lavorazione e la conservazione degli alimenti e gli acquisti.

In una larga parte del Sud Est asiatico e dell’Africa subsahariana, l’agricoltura resta in assoluto la più importante fonte di occupazione per le donne, che lavorano in media fino a 13 ore in più a settimana rispetto agli uomini. Donne e ragazze nelle aree rurali dei Paesi in via di sviluppo trascorrono quasi un’ora al giorno nella ricerca di acqua e dei mezzi necessari per preparare i pasti, ma in alcune comunità si può arrivare fino a quattro ore giornaliere.

Uno studio relativo all’Africa mostra come, nel corso di un anno, una donna arrivi a trasportare oltre 80 tonnellate di carburante, acqua e prodotti agricoli, contro una media maschile che si attesta sulle 10 tonnellate[2]. Non stupisce quindi che ogni cambiamento nelle condizioni sociosanitarie della famiglia (come la presenza di congiunti che necessitano di assistenza medica) o nello stato dell’ambiente circostante si ripercuota in modo differente sul lavoro maschile e femminile: la deforestazione, ad esempio, costringe le donne a coprire distanze più ampie per assicurare alla famiglia i mezzi di sostentamento.

Se è indiscutibile il ruolo dell’”altra metà del cielo” nell’agricoltura familiare, specie nei Paesi più svantaggiati, ben più difficile è stimare il contributo delle donne alla conduzione delle imprese nel settore primario: i dati suggeriscono che le aziende agricole con una donna a capo rappresentano una percentuale compresa fra il 3% e il 38% e producono tra il 2% e il 17% del valore del cibo. Va considerato che nella maggior parte delle situazioni non è possibile stabilire con certezza quali siano i ruoli di genere nella produzione, perché spesso il cibo viene prodotto con il contributo di uomini e donne in un processo collaborativo.

In generale, tuttavia, è giusto affermare che le donne siano sovrarappresentate in lavori caratterizzati da bassi salari, alta insicurezza e standard mediocri. Quando hanno limitate capacità decisionali all’interno della famiglia o scarso accesso alle risorse e al reddito familiare, sono anche più propense ad accettare salari più bassi. E nonostante esista grande eterogeneità nei diversi contesti, le donne restano nettamente più coinvolte nel lavoro non retribuito, in quello stagionale e nel part-time.

[1] Fao, The Role of Women in Agriculture

[2] Fao, Women, agriculture and food security

La situazione in Italia

In Italia l’agricoltura al femminile contribuisce per il 27% alla forza lavoro del settore (contro una media europea del 21%) e conta su circa 500mila aziende, il 31% del totale. Di queste ben il 78% ha una dimensione al di sotto ai 5 ettari, inferiore al dato già molto basso del Paese (8,4 ettari nel 2015)[1].

Impressiona ancor più il fatto che quasi metà delle imprenditrici agricole (il 49%) ha superato i 60 anni, mentre appena il 9% ha meno di 40 anni. Nell’universo dei giovani agricoltori, tuttavia, le donne rappresentano il 32% degli addetti.

Un confronto fra gli ultimi tre censimenti (1990, 2000, 2010) evidenzia come le aziende a guida femminile abbiano sostanzialmente tenuto negli anni Novanta (calo dell’1%) a differenza delle aziende condotte da uomini che nello stesso periodo registravano una diminuzione del 9%. Nel primo decennio del Duemila, per contro, si registra un parallelo tracollo nel numero di imprese (-37%): ad aumentare, in percentuale, è invece il peso delle conduttrici nel settore agricolo, dal 26% del 1990 al 31% del 2010.

Un altro trend in crescita è quello che negli ultimi anni ha visto un aumento costante della manodopera femminile nel lavoro bracciantile. Questa realtà nasconde troppo spesso lo sfruttamento di lavoratrici italiane e straniere, costrette dalle reti del caporalato a mansioni sottopagate, orari massacranti e gravi violenze anche di natura sessuale.

[1] Fondazione Nilde Iotti, Le donne in agricoltura

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