Negli ultimi vent’anni l’incremento della popolazione anziana ha determinato un aumento delle patologie croniche, tra cui quelle del sistema cardio-vascolare.
In Italia, ad esempio, l’ictus è responsabile ogni anno del 10 – 12% di tutti i decessi, per questo motivo richiede un’importante gestione preventiva dei fattori di rischio, soprattutto in pazienti affetti da Fibrillazione Atriale, una frequente anomalia del ritmo cardiaco che ha una prevalenza stimata fra l’1% e il 2% della popolazione generale (ma ben il 10% degli ultra-ottantenni), ed è causa del 15-20% di tutti gli ictus trombo-embolici.
In presenza di Fibrillazione Atriale, per esercitare misure preventive adeguate, viene raccomandata una terapia anticoagulante valida.
L’utilizzo di una terapia anticoagulante alternativa a quella tradizionale (antagonisti della vitamina K – AVK), rappresentata dagli anticoagulanti ad azione diretta (DOAC – Direct Oral Anti Coagulant), viene considerata una tappa fondamentale nella prevenzione delle complicanze tromboemboliche della Fibrillazione Atriale, in accordo con le più recenti Linee Guida europee.
Alla «Protezione su misura per pazienti con malattie cardiovascolari» è dedicato un Simposio organizzato da Bayer all’interno del Congresso SIC – Società Italiana di Cardiologia, in corso a Roma (14-17 dicembre 2018).
“La prevalenza della fibrillazione atriale nella popolazione generale aumenta con l’età, così come il rischio di ictus – ha dichiarato il Dottor Vincenzo Russo, Cardiologo presso l‘UOC Cardiologia dell’Ospedale Monaldi di Napoli -. Per questo motivo la prevenzione del rischio tromboembolico nei pazienti anziani affetti da fibrillazione atriale deve essere una priorità assoluta del nostro intervento terapeutico“.
Tuttavia, nonostante i vantaggi introdotti dai nuovi anticoagulanti orali, ad oggi, si registra ancora un sottoutilizzo degli stessi, a discapito soprattutto di una corretta gestione dei pazienti complessi o cronici, il cui percorso terapeutico comporta un lavoro integrato tra diversi specialisti.
Eppure, l‘introduzione nella pratica clinica dei DOAC attualmente disponibili è stato preceduto da rigorosi studi Internazionali di confronto tra le singole molecole e gli antagonisti della vitamina K. Tali studi hanno dimostrato una pari o superiore efficacia preventiva dello stroke e degli eventi tromboembolici sistemici dei nuovi farmaci rispetto al warfarin (AVK), con minori effetti secondari emorragici e con particolare riguardo agli eventi maggiori (emorragie intracraniche e sanguinamenti fatali).
In particolare, nello studio ROCKET AF (Rivaroxaban Once-daily oral direct factor Xa inhibition Compared with vitamin K antagonism for prevention of stroke and Embolism Trial in Atrial Fibrillation), la popolazione anziana era ben rappresentata (il 44% aveva un’età uguale o superiore ai 75 anni), con un rischio tromboembolico ed emorragico più alto rispetto agli studi registrativi delle altre molecole. Il profilo di efficacia e sicurezza di rivaroxaban rispetto a warfarin è risultato essere consistente in tutti i sottogruppi di età. Risultati che sono stati confermati anche nella pratica clinica quotidiana in studi di real life su pazienti ancora più anziani (> uguale 80 anni).
Oltre a un aumento del rischio di eventi cerebrovascolari, legati al ruolo riconosciuto della Fibrillazione Atriale come fattore di rischio, un paziente può presentare altre condizioni di «fragilità»: come l’insufficienza renale o malattie oncologiche.
Rispetto alla popolazione generale, i pazienti affetti da insufficienza renale cronica hanno un rischio maggiore sia di stroke che di sanguinamento: diventa, quindi, fondamentale una terapia anticoagulante in grado di proteggere da entrambi i rischi.
Grazie alle evidenze di un maggior beneficio clinico dei DOAC ripetto al warfarin in questo delicato setting di pazienti, l’impiego dei nuovi anticoagulanti nei pazienti con malattia renale cronica ha suscitato particolare interesse. Con opportune riduzioni di dosaggio, infatti, questi farmaci possono essere somministrati fino a valori di filtrato glomerulare (eGFR) pari a 30 ml/min/m2 arrivando anche per alcuni DOAC a 15 ml/min, con le opportune cautele.
“Nei pazienti con malattia renale cronica, l’impiego di rivaroxaban al dosaggio di 15 mg al giorno può essere utilizzato, sia per l’efficacia e sicurezza evidenziate nella letteratura scientifica, sia per elementi di pratica clinica, quali la monosomministrazione giornaliera, fattore molto importante per pazienti politrattati come quelli che stiamo prendendo in considerazione,” aggiunge il Dottor Russo.
Durante il Simposio si è parlato anche di un’altra «sfida»: l’impiego di rivaroxaban in pazienti oncologici, valutando i potenziali benefici del farmaco nei pazienti affetti sia da Trombosi Venosa Profonda che da Fibrillazione Atriale.
«Il cancro, infatti, può favorire la trombosi venosa profonda, a causa dello stato di ipercoagulabilità, tipico del cancro, la stasi venosa e il danno endoteliale. E’ proprio attraverso il danno endoteliale che i farmaci oncologici stessi possono causare la trombosi venosa profonda.
Di tutti i casi di tromboembolismo venoso circa il 20% si verifica in oncologia, e di tutti i pazienti oncologici il 15% sarà affetto da una trombosi venosa profonda – ha dichiarato il Professor Nicola Maurea, Direttore Struttura Complessa di Cardiologia Istituto Nazionale Tumori Fondazione Pascale – Anche in questo caso, l’utilizzo di rivaroxaban ha trovato riscontro in un recente trial, il Select-D, dove si è osservata una considerevole riduzione delle recidive di TEV rispetto ad eparina a basso peso molecolare, con percentuali di sanguinamenti maggiori, non superiori in maniera significativa rispetto all’eparina, attribuibili prevalentemente ad emorragie gastrointestinali.
Anche nella fibrillazione atriale nel paziente oncologico – conclude il Professor Maurea – recenti dati hanno dimostrato che l’efficacia e la sicurezza del rivaroxaban sono simili a quelli riportati nella popolazione generale dello studio Rocket-AF.»
Al Congresso SIC si è parlato di coronaropatia (coronary artery disease, CAD) ed arteriopatia periferica (peripheral artery disease, PAD), legate nella maggioranza dei casi a patologie vascolari aterosclerotiche. Ogni anno nel mondo, CAD e PAD causano la morte di circa 17,7 milioni di persone, corrispondente a circa il 31% di tutte le cause di morte.
Nonostante le attuali Linee Guida raccomandino l’impiego di antiaggreganti piastrinici per il trattamento di CAD e PAD, putroppo questa terapia lascia esposti i pazienti ad una elevata percentule di eventi cardiovascolari. Per questo motivo Bayer, mediante lo Studio Compass, ha indagato una nuova e più efficace terapia per il trattamento di CAD e PAD.
Nei pazienti affetti da CAD e PAD, rivaroxaban al dosaggio vascolare di 2,5 mg due volte al giorno associato ad aspirina 100 mg una volta/die, ha ridotto il rischio combinato di ictus, infarto del miocardio e morte per cause cardiovascolari del 24% rispetto ad aspirina 100 mg una volta/die in monoterapia.
La terapia combinata rivaroxaban/aspirina ha inoltre ridotto del 42%, 22% e 14%, rispettivamente il rischio relativo di ictus, mortalità per cause vascolari e di infarto, mostrando un buon profilo di sicurezza.
Un altro elemento significativo è che in pazienti affetti da PAD, con arteriopatie periferiche, si è avuta una significativa riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori a carico degli arti (-46%), e una riduzione imponente (-70%) delle amputazioni degli arti legate a cause vascolari.
Lo Studio è stato interrotto dopo un tempo medio di trattamento di 23 mesi, in anticipo sui tempi stabiliti, per manifesta superiorità della terapia combinata rivaroxaban/aspirina rispetto al braccio di confronto.