Quasi un barattolo di pomodori pelati Made in Italy su cinque esportati finisce in Gran Bretagna che è dipendente dall’estero per l’80% del pomodoro che consuma e rappresenta per l’Italia uno sbocco di mercato di vitale importanza che la Brexit, soprattutto in caso di mancato accordo, potrebbe mettere a rischio. E’ quanto afferma la Coldiretti in occasione del primo grande patto salva Made in Italy per salvaguardare le esportazioni agroalimentari italiane in Gran Bretagna dopo la Brexit.
Si tratta della storica firma dell’accordo tra Filiera Agricola Italiana spa e Princes Industrie Alimentari, il colosso inglese che è il più grande trasformatore di pomodori pelati in Italia destinati in buona parte proprio al mercato inglese. L’intesa, sottoscritta a Roma dal presidente della Coldiretti Ettore Prandini e dall’Amministratore Delegato di Princess Gianmarco Laviola, alla presenza dell’Ambasciatore del Regno Unito in Italia Jill Morris, interessa le produzioni di pomodoro dei territori delle regioni Puglia, Basilicata e Molise, nei quali si concentra quasi il 40% della produzione nazionale di pomodoro da industria.
L’obiettivo – sottolinea la Coldiretti – è creare le condizioni per evitare il rischio del crollo delle esportazioni in quello che rappresenta il primo mercato di riferimento delle conserve di pomodoro nazionali, il prodotto simbolo della dieta mediterranea ma anche un settore determinate per l’economia e l’occupazione in Italia. A spaventare – sottolinea la Coldiretti – sono gli effetti dei ritardi doganali e dei dazi con aumenti tariffari a doppia cifra che scatterebbero con il nuovo status di Paese Terzo rispetto all’Unione Europea. Un problema che minaccia l’intero export agroalimentare Made in Italia sui mercati inglesi, con forniture che nel 2018 hanno raggiunto i 3,4 miliardi di euro.
Dopo il vino che complessivamente fattura sul mercato inglese quasi 800 milioni di euro, spinto dal boom del Prosecco Dop con 350 milioni di euro, al secondo posto tra i prodotti agroalimentari italiani più venduti in Gran Bretagna c’è proprio l’ortofrutta fresca e trasformata come i derivati del pomodoro, ma rilevante è anche il ruolo della pasta, dei formaggi e dell’olio d’oliva. Importante anche il flusso di Grana Padano e Parmigiano Reggiano per un valore attorno ai 90 milioni di euro. Una “hard Brexit” rappresenta poi un problema anche per la tutela dei prodotti a denominazione di origine Dop/Igp con le esportazioni italiane di prodotti a indicazioni geografica e di qualità (Dop/Igp) che incidono per circa il 30 per cento sul totale dell’export agroalimentare Made in Italy.
Il rischio è, inoltre, che con l’uscita dall’Unione Europea – continua Coldiretti si affermi in Gran Bretagna una legislazione sfavorevole ai prodotti italiani. Un esempio è l’etichetta nutrizionale a semaforo sugli alimenti che si sta diffondendo in gran parte dei supermercati inglesi e che boccia ingiustamente quasi l’85% del Made in Italy a denominazione di origine (Dop). L’etichetta semaforo indica, infatti – spiega Coldiretti – con i bollini rosso, giallo o verde il contenuto di nutrienti critici per la salute come grassi, sali e zuccheri, ma non basandosi sulle quantità effettivamente consumate, bensì solo sulla generica presenza di un certo tipo di sostanze, porta a conclusioni fuorvianti arrivando a promuovere cibi spazzatura come le bevande gassate dalla ricetta ignota e a bocciare il Parmigiano Reggiano o il Prosciutto di Parma, ma anche un elisir di lunga vita come l’olio extravergine di oliva.
“La mancanza di un accordo è lo scenario peggiore perché rischia di rallentare il flusso delle esportazioni in un mercato importante per l’agroalimentare Made in Italy” afferma il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare che “a livello più generale il caso Brexit dimostra la necessità di superare l’attuale frammentazione e dispersione delle risorse per la promozione del vero Made in Italy all’estero puntando a un’Agenzia unica che accompagni le imprese in giro nel mondo sul modello della Sopexa e ad investire sulle Ambasciate, introducendo nella valutazione principi legati al numero dei contratti commerciali”.