Lunghe e logoranti missioni nello Spazio sono per ora impensabili per i nostri astronauti ed è questo uno dei principali crucci che da sempre tengono impegnati i ricercatori in campo spaziale. Ora, forse, si è trovata una soluzione lapalissiana quanto incredibile: l’ibernazione. Il sonno profondo, in particolare, sarebbe la soluzione più pratica per far viaggiare gli astronauti nelle lunghe missioni, a partire da Marte.
Il settore della medicina spaziale è da tempo impegnato in ricerche che consentano ai cosmonauti di aumentare il loro tempo di permanenza nello Spazio, oltre che in studi per contrastare gli effetti del volo spaziale sulla salute, i quali sono molto simili a quelli dell’ invecchiamento. “Ai congressi sentiamo spesso gli esperti di medicina spaziale parlare dell’ibernazione, che è una cosa che esiste in natura, negli animali che d’inverno vanno nel torpore profondo e rallentano il metabolismo. Per l’uomo si tratterà di cercare di ottenere una sorta di sonno profondo, perché un equipaggio che dorme non mangia, non produce rifiuti e non si creano conflitti causati dallo stare insieme in ambienti confinati“, ha dichiarato all’ANSA, Debora Angeloni, che docente di biologia molecolare alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
Angeloni, che è anche responsabile scientifica del primo corso di Biologia spaziale mai organizzato in Italia, ha precisato che “il sonno profondo sarebbe una soluzione molto pratica, ma la fisiologia umana è ancora largamente di ‘intralcio’ e gli studi sono ancora in fase iniziale“.
Un altro obiettivo sul quale i ricercatori stanno lavorando è quello di capire come proteggere gli astronauti dall’effetto della microgravità su massa ossea e muscolare, su colonna vertebrale e circolazione. E proprio su questa Debora Angeloni è l’ideatrice di un esperimento che ha portato 5 milioni di cellule umane, che rivestono i vasi sanguigni, sulla Stazione Spaziale, per studiarne la risposta alle condizioni del volo spaziale. “Abbiamo visto che nello spazio queste cellule –cambiano nella forma e di conseguenza sono meno performanti” ha concluso la biologa.