La disparità di genere è paradossalmente equa nell’interessare i settori più diversi della società: ne ha recentemente preso atto la rivista scientifica inglese ‘The Lancet’, che ha dedicato un intero numero – il 10171, intitolato ‘Advancing women in science, medicine, and global health’ – ad una panoramica di conquiste e problematiche relative alla presenza femminile nel settore della sanità, iniziativa lodevole che aggiunge una voce importante e autorevole a un dialogo di estrema importanza a livello sociale. All’interno della rivista, numerosi contributi affrontano diverse sfaccettature della questione, ma tra questi uno in particolare, intitolato ‘Why do women leave surgical training? A qualitative feminist study’, ha catturato l’attenzione della professoressa Patrizia Burra, ordinario di Gastroenterologia, dipartimento di Scienze chirurgiche, oncologiche e gastroenterologiche dell’Università degli Studi di Padova e vicepresidente SIGE. Burra ha analizzato i dati presentati nell’articolo in questione e ha rilevato che un approccio ‘qualitativo’ potrebbe essere utile nel trovare soluzioni concrete alla scarsa presenza femminile in sala operatoria, facendosi portavoce del punto di vista della SIGE sulla questione di genere. “Che le donne siano in netta minoranza in chirurgia è un dato di fatto, quel che bisogna fare è trovare il modo di fermare il trend – spiega la professoressa – Uno dei meriti degli autori dello studio è stato quello discostarsi dai lavori precedenti, che riportano solitamente dati ‘quantitativi’ per descrivere la carenza di donne in chirurgia, usando un inconsueto approccio qualitativo, che ha mostrato aspetti passati finora inosservati”.
I tre autori dell’articolo, Rhea Liang, Debra Nestel e Tim Dornan e appartengono rispettivamente al dipartimento di Chirurgia dell’ospedale della Gold Cost (Australia), all’Università di Melbourne (Australia) e alla Scuola di medicina dell’Università di Belfast (Irlanda). Lo studio è stato condotto arruolando donne che avevano da poco abbandonato la scuola di chirurgia, e intervistandole in merito alle proprie esperienze e alla decisione di rinunciare a quel tipo di carriera. Una volta ‘codificato’ – ovvero uniformato alla luce di parametri scientifici predeterminati – quanto detto dalle partecipanti, gli autori lo hanno analizzato alla luce di quanto pubblicato in letteratura e con le diverse teorie già esistenti. “12 donne hanno partecipato allo studio, il tempo da loro dedicato al training chirurgico variava da 6 mesi a 4 anni – illustra Burra – quanto detto durante le interviste per motivare l’abbandono della carriera in chirurgia ha confermato fattori già identificati in lavori precedentemente pubblicati ma ne ha anche portati alla luce nuovi”. Tra i fattori descritti in letteratura e che contribuiscono all’abbandono della chirurgia da parte delle donne vi sono: le numerose ore trascorse in ospedale; l’affaticamento e la carenza di sonno; l’impossibilità di pianificare il quotidiano; l’interferenza del lavoro con relazioni personali; le scarse opportunità di apprendimento; il bullismo; il desiderio di avere figli; le difficoltà nel gestire la propria famiglia. Alcuni studi sottolineano poi il ruolo demotivante che ha la carenza di modelli femminili in chirurgia, mentre altri che registrano che dietro all’abbandono di una scuola chirurgica vi sia spesso l’esasperazione di fronte a sessismo, discriminazione e molestie sessuali. A triste dimostrazione che ancora oggi l’essere donne sia una condizione intrinsecamente svantaggiosa.
Il lavoro di Dornan, Liang e Nestel ha fatto emergere sei fattori strettamente connessi tra loro in modo molto complesso e mai presi in considerazione finora: mancanza di ferie e permessi persino a fronte di gravi lutti familiari; la svalutazione dei motivi addotti dalle donne per ottenere giorni di ferie, spesso etichettati come ‘non validi’; compromissione della salute mentale; mancanza di interazione con altre donne impegnate nella stessa carriera; impossibilità di esprimersi per paura di ripercussioni; assenza di consulenza e supporto psicologico esterni alle scuole di chirurgia. “Gli autori hanno elaborato un modello visivo – spiega Burra – che consiste in una ‘torre’ di blocchi in cui ciascun blocco rappresenta un fattore che ha contribuito alla decisione di abbandonare il training chirurgico mentre la cima della torre rappresenta la scelta definitiva di lasciare. Il modello fa apparire in modo lampante che anche piccole azioni che incidono su un singolo fattore possono far cadere la torre, poiché vanno a smuovere ampie pile di blocchi”. Gli autori concludono che una politica di inclusione efficace dovrebbe muovere da interventi che prendano in considerazione la possibilità di effetti negativi imprevisti, che non si focalizzino indebitamente sul genere, e che affrontino molteplici fattori.
Le strategie da mettere in campo per intervenire nell’ambito delle scuole di Chirurgia non possono ovviamente prescindere dal contesto lavorativo e sociale. “La spinta alla conservazione dello status quo è forte in ambito accademico – afferma la professoressa – una resistenza che appare lampante quando si guardano i numeri relativi al corpo docente nelle nostre università. Dati recenti (del 16 aprile 2018) riguardanti il settore scientifico disciplinare cui afferisco, MED12 ovvero Gastroenterologia mostrano chiaramente come il genere femminile in percentuale diminuisce mano a mano che si passa da ricercatore ad associato ad ordinario: su un totale di 150 docenti, 38 sono donne (25 per cento), più nel dettaglio i ricercatori sono 47 di cui 19 donne (40 per cento), i professori associati 63 di cui 16 donne (25 per cento) e i professori ordinari 40 di cui 3 donne (7.5 per cento). Come scrive Aldo Cazzullo nel suo ‘Giuro che non avrò più fame’, parlando della crescita del nostro Paese – conclude Burra – ‘le cose da fare sono tantissime e l’esito dipende da noi, la crescita non e mai un fatto soltanto economico, ma culturale e spirituale’. Ecco, io trovo queste parole adeguate anche per l’evoluzione delle donne in medicina o, in questo caso, delle donne in chirurgia”.
Il professor Domenico Alvaro, presidente della SIGE, ritiene che “occorrerà rivedere l’organizzazione del lavoro agendo sul fronte legislativo e contrattuale ed apportare le modifiche necessarie a garantire alla donna il ruolo di madre e medico. Servono più servizi sociali (ad esempio asili nido) nelle strutture ospedaliere ed un’organizzazione del lavoro che renda possibile la gestione della professione e della vita familiare. Ci vorrà tempo ma credo che questo avverrà perché ‘le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare null’altro che la loro intelligenza (Levi Montalcini)’.”