“La curiosità sull’esistenza di altri mondi abitati ha accompagnato da sempre l’umanità“, nota Patrizia Caravei, dirigente di ricerca all’Istituto Nazionale di Astrofisica e autrice di ‘Conquistati dalla Luna‘ (Raffaello Cortina editore). In effetti, la possibilità che ci sia un’altra vita nello spazio è un dubbio che hanno avuto anche i filosofi greci, e continuano a chiederselo tutti gli astronomi impegnati nella ricerca di una nuova Terra (tra le migliaia di pianeti extrasolari che sono stati scoperti negli ultimi anni). “Cercano un segnale che non possa essere spiegato con cause naturali, quindi presumibilmente dovuto a qualche tipo di civiltà intelligente“.
In effetti, la ricerca del segnale è iniziata una trentina d’anni prima che gli astronomi riuscissero a sviluppare metodi che permettono di rendersi conto della presenza di un pianeta in orbita ad un’altra stella, spiega ancora l’astrofica: la storia inizia nel settembre 1959 con la pubblicazione di un articolo intitolato “Searching for Interstellar Communication“. Gli autori erano Giuseppe Cocconi (nella foto) e Philip Morrison, due eminenti fisici che sostenevano che, se davvero da qualche parte lassù ci sono esseri intelligenti, potrebbero aver creato un sistema di comunicazione indirizzato al resto dell’universo.
“Le onde radio sono il metodo più efficiente per trasmettere un segnale a distanza. Cocconi e Morrison suggerirono di usare le nuove antenne della radioastronomia, che proprio allora stava diventando una branca importante dell’astronomia, per mettersi in ascolto. Suggerirono di sintonizzarsi sulla frequenza caratteristica dell’atomo di idrogeno, che abbonda ovunque nel cosmo“.
I due autori, “con grande onestà“, ammettevano di non avere idea delle probabilità di successo di questa ricerca alla cieca, tuttavia concludevano che, se non si prova, le probabilità di successo sono certamente nulle. Questo visionario articolo, 60 anni fa, suscitò curiosità e qualcuno fu talmente entusiasta dell’idea da mettersi alla ricerca di segnali provenienti da civiltà extraterrestri. Iniziò Frank Drake nell’aprile 1960 utilizzando il nuovo Osservatorio nazionale radioastronomico NRAO degli Stati Uniti, appena creato a Green Bank, in Virginia. Drake era (e continua ad essere) un sognatore ma aveva idee molto chiare sull’impresa a cui si accingeva.
“Per cercare di valutare la probabilità di successo – prosegue l’astrofisica italiana- scrisse una formula poi diventata famosa: l’equazione di Drake aveva (ed ha) l’obiettivo di stimare il numero N delle civilizzazioni nella nostra galassia capaci di inviare segnali radio che noi potremmo ricevere. Secondo Drake, per calcolare la probabilità di un contatto, ossia il numero di civiltà sufficientemente avanzate presenti nella Galassia, bisogna moltiplicare tra loro il tasso di formazione di stelle con potenziali zone abitabili, la frazione di queste stelle con sistemi planetari, la frazione dei pianeti con condizioni favorevoli alla vita, la frazione di questi dove la vita si sia effettivamente sviluppata, la frazione di questi dove la vita produce civiltà intelligenti, l’ulteriore frazione in cui le civiltà acquisiscono una tecnologia in grado di inviare segnali radio nello spazio, e infine il lasso di tempo per cui i segnali vengono effettivamente inviati, cioè la durata della civiltà extraterrestre“.
Insomma, un bel rompicapo. E termini dell’equazione sono chiaramente di due tipi: si parte dall’astronomia per arrivare alla biologia. Ma attenzione, perché “occorre tenere conto anche del tempo di transito del segnale da chi lo ha prodotto a noi che lo ascoltiamo: una civiltà potrebbe esistere dall’altro capo delle galassia, ma il suo segnale impiegherebbe 50.000 anni per raggiungerci. E d’altro canto, una civiltà potrebbe essersi estinta durante il tempo di transito del segnale“. L’equazione di Drake serve per riassumere il problema, ma non è di grande aiuto per stimare davvero la probabilità di stabilire un contatto con una civiltà extraterrestre. Da notare che quando fu scritta, nel 1960, la scoperta dei pianeta extrasolari era ancora di là da venire e non si aveva assolutamente idea se per stelle come il nostro Sole avere un pianeta fosse un’eccezione oppure la normalità.
“Ma sessant’anni non sono passati invano“, aggiunge ancora Caravei. “Oggi abbiamo un’idea molto più precisa del tasso di formazione di stelle ‘abitabili’, del tasso di formazione di sistemi planetari e della probabilità che un pianeta possa essere (vagamente) compatibile con la vita come la intendiamo noi. Grazie a quello che abbiamo imparato dallo studio dei sistemi planetari extrasolari, adesso sappiamo che il numero dei pianeti terrestri che orbitano nella zona di abitabilità della loro stessa, si aggira intorno alle decine di miliardi. E’ un passo avanti, ma non basta: siamo ancora ben lontani dal saper calcolare il numero N di civilizzazioni nella Via Lattea attive oggi. Anzi, siamo ancora lontani dal capire se ne esista almeno un’altra“.
Tuttavia, visto il numero sterminato di pianeti potenzialmente abitabili, sono molti a pensare che altre forme di vita siano una necessità matematica anche se non si è ancora visto alcunché. Sicuramente non si può dire che non si sia provato a cercare. Dopo i pionieristici tentativi di Drake, si sono susseguiti molti programmi di ricerca di segnali extraterrestri. “Il più famoso e’ sicuramente SETI (Search for ExtraTerrestrial Intelligence) che è stato finanziato dalla NASA dal 1971 al 1993. Poi, la mancanza di risultati ha prosciugato i fondi e SETI ha continuato ad esistere grazie a donazioni private ed alla creatività degli scienziati che hanno inventato il calcolo distribuito (a costo zero) per analizzare i dati usando i personal computer che uno stuolo di volontari mettono a disposizione quando non vengono utilizzati. SETI@home è stato il primo dei programmi BOINC che sfruttano le capacita’ dei numerosi PC (collegati in rete) quando non sono utilizzati dai proprietari per ottenere gratuitamente prestazioni vicine a quelle dei costosi supercomputer“.
Recentemente l’interesse nei programmi SETI ha avuto un notevole incremento grazie a Yuri Milner, un miliardario di origine russa (ma che vive in California), che ha promesso donazioni per un totale di 100 milioni di dollari in 10 anni. Yuri Milner vuole aumentare nel pubblico, specialmente nei giovani, l’interesse per la scienza che è la chiave del nostro futuro. Lui dice di avere la ricerca spaziale nel suo Dna; dopotutto l’hanno chiamato Yuri in onore di Gagarin. Anche il grande Stephen Hawking si era fatto affascinare dall’idea e, nel 2015, era diventato testimonial delle Breakthrough Initiatives. Persino la NASA ci ha ripensato e ha deciso di riaprire i cordoni della borsa per cercare technological signatures (letteralmente, firme tecnologiche, un eufemismo per evitare la parola SETI). “Non resta – conclude l’astrofica italiana – che aspettare fiduciosi ma coscienti di tutti i parametri ancora ignoti dell’equazione di Drake. Rimane sempre vero quello che dicevano 60 anni fa Cocconi e Morrison. ‘Non sappiamo quali siano le possibilità di successo, ma, se non proviamo, le probabilità sono sicuramente nulle‘.