Era il 19 luglio del 1992 quando Paolo Borsellino venne fatto saltare in aria insieme agli uomini della sua scorta. Accadde dopo soli 57 giorni dalla morte di Giovanni Falcone, amico e collega del giudice, entrambi impegnati nella difficile e incessante lotta a Cosa Nostra. Borsellino aveva solo 52 anni. Insieme a lui morirono cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi, prima donna a far parte di una scorta e la prima donna della Polizia di Stato a perdere la vita in servizio. L’unico sopravvissuto fu l’agente Antonino Vullo che riportò gravi ferite in seguito all’esplosione.
La strage di Capaci, sviscerata, indagata, raccontata e svelata, non ha quasi più segreti e dinamica e mandanti sono noti da tempo. Diverso è per via D’Amelio: misteri, depistaggi, mezze verità, palesi incongruenze, la fanno da padroni da anni. Da quel 19 luglio ne sono passati altri 27, ma non è ancora stata fatta completamente chiarezza. Fiammetta Borsellino, figlia più giovane del magistrato che all’epoca dei fatti aveva 19 anni, scrisse una lettera aperta al quotidiano La Repubblica, con tredici quesiti in merito alle indagini. Si tratta di una missiva rivolta alle istituzioni che affronta tematiche fondamentali: perché la protezione per Borsellino non venne intensificata dopo la strage di Capaci; che fine aveva fatto l’agenda rossa del padre Paolo; qual era il ruolo dei pentiti e delle procure che indagavano dal giorno della strage a oggi.
Ma vediamo i fatti. Era una calda domenica, quel 19 luglio 1992. Borsellino si stava recando a casa della madre. Coloro che posizionarono il tritolo nell’auto parcheggiata sotto l’abitazione della signora Borsellino, sapevano che ogni domenica Paolo andava a trovare la madre, in via Mariano D’Amelio. Da tempo gli uomini della scorta avevano segnalato la pericolosità di quella strada, ma nessuno aveva mai fatto nulla. L’autorizzazione al divieto di parcheggio per le auto non era mai arrivata.
Alle 16:58 una Fiat 126, risultata poi rubata, saltò in aria. Era una delle tante parcheggiata in via d’Amelio. Una delle tante che lì non dovevano esserci. Fu caricata con circa 90 chilogrammi di esplosivo del tipo Semtex-H, PETN, tritolo e T4. Il comando venne azionato a distanza proprio nel momento in cui il magistrato e la sua scorta scesero dalle proprie auto. Antonino Vullo, l’unico sopravvissuto la ricorda così: «Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto…».
I primi soccorritori si trovarono di fronte ad uno spettacolo di guerra, ma non era Beirut, era la meravigliosa Palermo, era l’Italia. La peggiore Italia. Auto distrutte dalle fiamme, gente che urlava, palazzi distrutti, finestre esplose. Ma nonostante questo nessuno pensò di delimitare subito la scena del delitto. Chiunque, per diverse ore, poteva fare ciò che voleva: aggiungere o togliere elementi importanti alla scena, perché nel caos più totale nessuno se ne sarebbe accorto. E questo è uno dei punti su cui Fiammetta Borsellino ha sempre voluto indagare: che fine aveva fatto l’agenda rossa del padre e perché il deputato ed ex-giudice Giuseppe Ayala, che abitava in zona, fu uno dei primi ad arrivare sulla scena. Da quell’agenda rossa Borsellino non si separava mai, soprattutto dopo la morte di Falcone. L’agenda non era nella sua borsa recuperata dopo l’esplosione, ce n’era però un’altra, intatta. Alla famiglia la borsa venne restituita senza agenda rossa. «Il giorno della sua morte, vidi mio padre mettere nella borsa, tra le altre cose, l’agenda rossa da cui non si separava mai», racconta Lucia, la più grande dei figli di Borsellino, incalzata dal fratello Manfredi: «Dopo la morte di Giovanni Falcone la usava continuamente. E non per appuntare fatti personali. Era certamente un modo per segnare eventi e cose di lavoro importanti. Se non fosse andata persa, le indagini sulla sua morte avrebbero certamente preso un’altra direzione».
Ma non basta, perché vi furono anche depistaggi, concreti e palesi. In una sentenza del 30 giugno 2018 la Corte d’Assise di Caltanissetta definì l’omicidio di Borsellino «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». Lo scrissero così, nero su bianco. Pentiti inattendibili – come Vincenzo Scarantino che ha raccontato fandonie per vent’anni – ascoltati come fossero testimoni importanti, poliziotti dal ruolo ambiguo e rinviati a giudizio, omissioni, dimenticanze, mancanze. Scarantino, ora si sa per certo, venne obbligato dal gruppo investigativo guidato da Arnaldo la Barbera, a fornire una versione assolutamente falsa della dinamica e della preparazione dell’attentato.
La svolta avvenne nel 2008, quando Gaspare Spatuzza iniziò a collaborare e rivelò di essere stato lui a rubare la Fiat 126 fatta saltare in aria, smentendo di fatto la versione di Scarantino e compagnia bella. I mandanti del furto, avvenuto poco più di una settimana prima, furono Cristofaro Cannella e Giuseppe Graviano, boss del quartiere Brancaccio. L’esplosivo e l’innesco vennero posizionati il 18 luglio, in un garage vicino al luogo dell’attentato. Dopo le dichiarazioni di Spatuzza, anche Scarantino, Candura e Andriotta svelarono le loro carte: dichiararono di essere stati costretti a collaborare e a fornire versioni non corrette, e a costringerli sarebbe stato il questore La Barbera insieme ai suoi uomini.
Come si legge nella sentenza del 2018, si è trattato di «Una serie di forzature tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte». Ma quale sarebbe stato il motivo di questi depistaggi? Anche in questo la sentenza è molto chiara: «occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato».
Ma, ancora, non basta. Ci sono altre verità emerse nel corso degli anni, alcune recentemente. La strage di via d’Amelio subì un a spinta, qualcuno voleva che si facesse in fretta. Non c’era più tempo. Ma per cosa? «L’accelerazione della strage di Via D’Amelio è certa, bisogna chiedersi quale fu il motivo. La lettura che noi avevamo dato è che il giudice Paolo Borsellino potesse rappresentare un ostacolo alla prosecuzione della trattativa Stato-mafia. E la sentenza di primo grado dello stesso processo Trattativa si avvicina molto a questa tesi». E’ quanto dichiarato dal pm Roberto Tartaglia, che sostenne l’accusa nel processo sulla Trattativa Stato-mafia e che ora fa parte della Commissione Antimafia. E’ stato uno dei fautori della desecretazione degli archivi e dagli atti raccolti dal 1962, a partire dalla pubblicazione delle stesse audizioni inedite di Borsellino a San Macuto, sede dell’Antimafia, tra il 1981 e il 1991.
Come ha ricordato lo stesso Tartaglia, in occasione dell’anniversario della strage di via D’Amelio: «Sulla base di una serie di dati processuali possiamo dire che l’accelerazione di via D’Amelio c’è stata. Fino a pochissimo tempo prima della sua esecuzione, via d’Amelio non era nei programmi di dettaglio di Cosa Nostra, dettati da Salvatore Riina. Anche Giovanni Brusca, collaboratore ritenuto più volte credibile, dice come dopo la strage di Capaci, su indicazione di Riina, Cosa nostra fosse al lavoro su altri obiettivi. Voleva uccidere l’onorevole Mannino, poi il brusco stop. Ma non solo. Anche Cancemi, collaboratore storico oggi deceduto, parla di una riunione fatta poco tempo prima di Via d’Amelio in cui Riina preannuncia la necessità di uccidere Borsellino, dimostrando una particolare urgenza. Quando io e gli altri colleghi palermitani intercettammo Riina nelle ore di socialità, lui stesso diceva che fu ‘una cosa decisa alla giornata‘. In un’altra conversazione, sempre intercettata, dell’agosto 2013, dice: ‘Poi venne quello da me e mi disse ‘subito, subito. Ma chi fu?’ Bisognerebbe approfondire chi fosse l’interlocutore ignoto» precisa Tartaglia.
Dalla parole scritte dai giudici tra le motivazioni della sentenza di primo grado sul processo Trattativa Stato-mafia: emerge quale possa essere stata la necessità di accelerare la strage di via d’Amelio: «Ove non si volesse prevenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla “trattativa”, conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo».
Misteri, depistaggi, bugie, mezze verità: ancora non è stata fatta chiarezza, ancora non si è riusciti a venire a capo di questa districata matassa. Ma ciò che è certo è che Paolo Borsellino, prima di perdere la vita, prima dei fatti, prima delle azioni, aveva già capito tutto: «La mafia mi ucciderà ma saranno altri a volerlo», confidò qualche settimana prima della strage. Sapeva di non avere molto tempo e in quell’agenda rossa, probabilmente aveva concentrato tutto il suo tempo, tutti quegli ultimi mesi dopo la morte dell’amico Giovanni. Paolo Borsellino e Giovanni Falcone avevano scoperchiato un vaso di Pandora nel quale erano contenuti tutti gli intrecci e gli intrallazzi tra Stato e Mafia. Loro e gli uomini delle loro scorte sono stati uccisi per far sì che questi intrecci potessero consolidarsi indisturbati e senza paura di essere scoperti e bloccati.