Ancora brutte notizie per il Medio Oriente: la scomparsa del sultano dell’Oman Qaboos bin Said, sopraggiunta due gironi fa dopo una lunga malattia, fa aumentare l’incertezza nella regione del Golfo già attraversata negli ultimi mesi da tensioni e disordini. Il successore di Qaboos, Haitham bin Tariq Al Said, ha già dichiarato di voler agire in continuità con il proprio predecessore, ma sono tante le sfide che lo attendono.
Nato nel 1940, Qaboos bin Said viene educato nel Regno Unito, prima a Suffolk e poi alla Royal Military Academy di Sandhurst. Al ritorno in patria, nel 1965, viene posto agli arresti domiciliari dal padre, il sultano Said bin Taimur. Nel 1970 Qaboos si rende protagonista di un colpo di stato non violento – supportato dagli inglesi – con il quale rovescia il padre e inaugura una nuova fase nella vita del paese, improntata da un lato allo sviluppo economico e alla modernizzazione, e dall’altra alla ricerca di un ruolo regionale di mediatore e facilitatore, atto a proteggere il fragile sultanato. Sul primo fronte, il sultano Qaboos utilizza i proventi derivanti dagli allora appena scoperti giacimenti di petrolio per avviare un programma di sviluppo economico e infrastrutturale, con la costruzione di strade, scuole, ospedali e porti. Sul secondo fronte, il sultano traghetta il paese fuori dall’isolamento internazionale, costruendo legami con gli attori regionali ma anche con le grandi potenze dell’epoca. Avvia relazioni diplomatiche con la Cina e con l’Unione Sovietica, mantenendo al contempo solidi rapporti con l’Occidente, supporta il dialogo tra Egitto e Israele che nel 1979 avrebbe portato all’accordo di Camp David, infine apre all’Iran rivoluzionario di Khomeini pur rimanendo membro di Lega Araba e Consiglio di cooperazione del Golfo.
Più di recente la tradizionale politica di dialogo omanita garantisce al Medio Oriente un mediatore indispensabile nelle numerose crisi che affliggono la regione: è in Oman che nel 2013 si apre il dialogo sottotraccia tra Stati Uniti e Iran che nel 2015 avrebbe portato all’intesa sul nucleare (Jcpoa): è Sultan Qaboos che nel 2018 riceve in una visita a sorpresa Benjamin Netanyahu, la prima di un primo ministro israeliano in un paese del Golfo in oltre due decenni. Una politica di terzietà che Qaboos protegge a fatica, in una regione sempre più segnata da accese conflittualità e polarizzazione: nel 2015 prende le distanze dall’intervento a guida saudita-emiratina in Yemen; nel 2017 non partecipa al tentativo di isolamento diplomatico ed economico portato avanti da Riad e Abu Dhabi nei confronti del Qatar. Proprio questa terzietà rappresenta una delle principali eredità da tutelare e a cui dare continuità nell’epoca post-Qaboos. Haitham bin Tariq Al Said, cugino di Qaboos, è il nuovo leader dell’Oman. Si è a lungo dibattuto circa l’incertezza che avrebbe circondato il momento della successione al vertice omanita, dal momento che Qaboos non aveva figli, e della natura complessa e bizantina del processo di successione previsto dalla Legge fondamentale del paese. La rapidità con la quale è stato annunciato il nome del successore lascia presupporre che, stante il progressivo aggravarsi delle condizioni di salute del sultano negli ultimi mesi, il paese fosse pronto a un momento così dirimente per la propria storia.
Sessantacinque anni, ha già ricoperto diversi ruoli di governo, tra cui quello di ministro della Cultura, ma soprattutto è a capo del comitato che supervisiona lo sforzo di riforma del paese “Oman 2040″. Come altri paesi del Golfo, anche l’Oman ha approntato una ”Vision” per la trasformazione dell’economia del paese e la sua emancipazione dagli idrocarburi, con lo sviluppo dei settori agricolo, turistico, industriale e della pesca, ma anche e soprattutto con il miglioramento di infrastrutture logistiche quali porti, aeroporti e complessi industriali. Se dunque il nuovo SULTANO ha già annunciato di voler continuare la politica di “coesistenza pacifica e non interferenza” consolidata negli anni da sultan Qaboos, la sfida principale che lo aspetta sembra essere proprio il traghettare il paese verso una nuova fase di modernizzazione e sviluppo economico, dopo quella – benedetta dalle rendite petrolifere – assicurata da sultan Qaboos negli ultimi 40 anni.
Nonostante si temano possibili tentativi da parte di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti di influenzare la politica estera del paese e attirare l’Oman nel proprio campo, è altrettanto vero che proprio questi due paesi potrebbero beneficiare della continuità del ruolo omanita di mediazione. Non sono passati inosservati gli appelli alla de-escalation e all’autocontrollo lanciati tanto da Riad quanto da Abu Dhabi dopo il pericoloso aumento della tensione tra Stati Uniti e Iran che è seguita all’assassinio da parte
degli Stati Uniti del generale iraniano Qassem Soleimani. Tentativi di mediazione intra-Golfo, del resto, erano già arrivati dopo agli attacchi dello scorso settembre sugli impianti di Saudi Aramco di Abqaiq e Khurais.
La sfida della transizione economica che i paesi del Golfo si trovano in questi anni ad affrontare chiama infatti in causa una ridiscussione del patto sociale, e una ridefinizione del modello classico di cittadinanza. Il calo globale del prezzo del petrolio negli anni recenti ha inflitto un duro colpo alle casse omanite, che nel 2020 dovranno fare fronte a un deficit di bilancio di 6,4 miliardi di dollari. Le proteste di piazza che hanno interessato il paese nel 2011 hanno portato il governo a rispondere con un aumento dei posti di lavoro nel settore pubblico, in controtendenza rispetto a quanto richiesto dal piano di riforma dell’economia. Anche l’introduzione di una tassa sul valore aggiunto delle merci, inizialmente prevista per il 2016, è stata rimandata al 2021.