Un gruppo internazionale di ricercatori, tra cui due dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e dell’Agenzia Spaziale italiana, mostra in un nuovo studio che l’architettura dei sistemi planetari conserva traccia di quanto sia stata violenta la loro evoluzione. Il team è riuscito ad identificare un parametro che permette confronti diretti tra i diversi sistemi planetari, lo stesso usato in precedenza per confrontare i risultati di simulazioni al computer per il sistema solare. Applicando questo metodo a sistemi planetari reali i ricercatori hanno verificato che i risultati ottenuti sono in linea con quelli ottenuti da studi dinamici molto più dettagliati. Il lavoro è stato pubblicato su Astronomy & Astrophysics.
Un gruppo di ricercatori, di cui fanno parte Diego Turrini dell’INAF e Angelo Zinzi dello Space Science Data Center (SSDC) dell’ASI, ha realizzato uno studio basato sull’analisi statistica dei sistemi esoplanetari, per ricostruire la loro storia. Il numero di esopianeti conosciuti ha ormai superato i 4mila e il tool sviluppato dallo SSDC dell’ASI ExoplAn3T permette di focalizzarsi non solo sui singoli pianeti, ma anche sui sistemi esoplanetari cui appartengono.
«Analizzando i sistemi planetari nel loro insieme è possibile ottenere informazioni sulla loro storia evolutiva a partire dall’analisi dei loro parametri fisici e orbitali, come la massa, l’ampiezza, l’eccentricità e le inclinazioni delle loro orbite», dice Diego Turrini, primo autore dello studio in forze presso l’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali dell’INAF, e prosegue «Tutti questi “ingredienti” sono stati combinati in un singolo parametro, denominato NAMD (Normalized Angular Momentum Deficit), che abbiamo usato per caratterizzare ciascun sistema planetario. Il NAMD è indipendente dalle dimensioni del sistema planetario e funziona come un indicatore di quanto violenta sia stata la sua storia evolutiva: il suo valore infatti aumenta particolarmente durante le fasi di vita governate dal caos che rendono il sistema instabile e causano collisioni o espulsioni tra i suoi pianeti».
Utilizzando il tool ExoplAn3T, i ricercatori hanno identificato nell’archivio di esopianeti della NASA 98 esosistemi per i quali è stato possibile ottenere tutti i valori utili al calcolo del NAMD, così da ricavare un andamento del NAMD al variare del numero di pianeti del sistema, la cosiddetta molteplicità.
Tale valor medio, che è stato ulteriormente corretto tenendo presente le incertezze delle misure utilizzate per il calcolo, si è rivelato essere inversamente proporzionale alla molteplicità. In altre parole, meno pianeti ha il sistema, più alto è in genere il valore del NAMD, così da far pensare che l’evoluzione della gran parte dei sistemi a bassa molteplicità sia stata caratterizzata da violente fasi di caos e dalla perdita di parte dei loro pianeti. «Questo suggerisce che i processi che portano alla formazione di un sistema planetario favoriscano la nascita di molti pianeti, di cui solo una parte però sopravvive alle successive fasi di vita del sistema» conclude Turrini.
Nello studio vengono confrontati, tra gli altri, il sistema solare e il famoso sistema esoplanetario TRAPPIST-1. Nonostante vengano spesso presentati come simili, con pochi e semplici conti la metrica del NAMD mostra che la loro storia dinamica è assai diversa. Pur avendo avuto entrambi una vita “tranquilla” rispetto alla maggior parte degli esosistemi analizzati, il primo ha avuto un passato più caotico e violento del secondo, in linea con i risultati di studi ben più complessi pubblicati in letteratura.
«L’applicazione immediata di questo metodo è sicuramente agli studi di popolazione degli esosistemi, di cui è possibile valutare in modo rapido ma quantitativo quanto frequenti siano i casi di evoluzione violenta e caotica, anche grazie all’utilizzo del tool ExoplAn3T sviluppato in SSDC.», dice Angelo Zinzi, dell’SSDC di ASI, e conclude «Un secondo campo di applicazione è lo studio della composizione degli esopianeti, in particolare in vista delle osservazioni che potranno essere effettuate con il telescopio spaziale James Webb Space Telescope e ARIEL».
L’utilizzo del metodo proposto permette infatti di valutare quale tipo di migrazione possa aver portato i pianeti dove li osserviamo e quindi se tale migrazione abbia influenzato o meno la composizione del pianeta, fornendo in tal modo un contesto dinamico per interpretare i dati osservativi.