Coronavirus: “Il 93,5% delle oncologie ha riorganizzato l’attività, per 1 specialista su 3 mancano le informazioni per gestire l’emergenza”

L’emergenza coronavirus ha rappresentato uno tsunami per le oncologie dell'Italia: il 93,5% dei centri è stato costretto a ripensare l’attività clinica
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L’emergenza coronavirus ha rappresentato un vero e proprio tsunami per le oncologie del nostro Paese. Ben il 93,5% dei centri è stato costretto a ripensare l’attività clinica. L’organizzazione complessiva ha retto l’urto della pandemia, visto che per il 63,7% degli oncologi gli ospedali hanno garantito la continuità terapeutica (ad esempio con canali comunicativi alternativi come videochiamate) e, per il 58%, i centri hanno saputo gestire le risorse disponibili in maniera efficiente. Preoccupa, però, che il 35% degli oncologi non sia stato informato o abbia ricevuto poche indicazioni sulle procedure e sulle raccomandazioni da seguire per affrontare l’emergenza. Anche la formazione su questi aspetti è stata assente o scarsa, come affermato dal 55% degli specialisti. Con una chiara conseguenza: il 56% degli oncologi ritiene che il percorso terapeutico dei pazienti, in questa fase, sia qualitativamente inferiore rispetto al periodo precedente alla pandemia. Sono i principali risultati del sondaggio condotto su circa 400 oncologi in tutte le Regioni italiane, promosso dall’Università Politecnica delle Marche e dagli Ospedali Riuniti di Ancona.

“La nostra specialità è stata profondamente segnata dall’emergenza COVID-19, anche perché i pazienti colpiti da tumore sono fragili e rischiano di subire più danni in caso di infezione. Pertanto continuiamo a seguire i malati oncologici positivi che sono in cura nei reparti COVID-19 – spiega la prof.ssa Rossana Berardi, Ordinario di Oncologia Medica presso l’Università Politecnica delle Marche e Direttore della Clinica Oncologica Ospedali Riuniti di Ancona -. Vi sono aree di miglioramento. Innanzitutto, vanno differenziati i percorsi di cura tra pazienti contagiati e non infetti. Inoltre, a un mese dall’inizio della pandemia, cambiano le prospettive e ogni paziente va considerato positivo, fino a prova contraria. Per questo tutti gli operatori devono essere dotati di protezioni”. Dal sondaggio però, emergono forti lacune sul fronte della tutela dei sanitari. Il 21% afferma di non aver ricevuto dispositivi di protezione adeguati e tempestivi rispetto alle necessità cliniche e per il 55% la fornitura di questi device è stata solo parziale. “Non vi sono ancora linee guida che ci indichino quali trattamenti possano essere considerati differibili e come posticipare le cure, senza porre i pazienti a rischio di non ricevere un’adeguata terapia anticancro – afferma la prof.ssa Berardi -. L’assenza di raccomandazioni specifiche in questo senso si riflette anche nello stato d’animo degli specialisti: il 60% afferma di essersi sentito preoccupato al momento di rinviare un trattamento oncologico o un esame strumentale, anche se il 90% ritiene che il paziente abbia ben compreso le motivazioni della scelta. La condivisione delle decisioni è fondamentale, soprattutto in questa fase. Un recente articolo pubblicato su Nature Reviews Clinical Oncology dà alcuni suggerimenti: nelle patologie neoplastiche evolutive non si possono procrastinare i trattamenti. Scelta che va, invece, adottata in casi di tumori stabili o in caso di terapie con finalità palliative che non dimostrano efficacia”.

“Così come i percorsi di cura, vanno separati anche i team di lavoro – continua la prof.ssa Berardi -. Oggi però non è sempre così, perché spesso i professionisti sono impegnati in equipe diverse per sopperire alla mancanza di personale. Se un operatore è contagiato dal virus, l’intero gruppo diventa a rischio di infezione. Inoltre, vanno sottoposti a tampone tutti gli operatori sanitari, inclusi coloro che non presentano sintomi”. Dal sondaggio emergono forti criticità sullo screening: il 28,9% degli oncologi non è stato sottoposto a tampone, il 21,1% lo ha eseguito solo se sintomatico, il 34,3% se asintomatico in seguito a contatto con casi noti e solo il 15,7% almeno una volta indipendentemente da sintomi o contatti. L’82% è preoccupato di essere a maggior rischio di contagio rispetto alla popolazione generale e il 93% teme di poter trasmettere il virus ai familiari. Gravi anche le conseguenze psicologiche determinate da una condizione lavorativa ad alta probabilità di esposizione al contagio: per il 62% degli specialisti la qualità del sonno è peggiorata (il 58% dorme meno), per il 49% la capacità di concentrazione è inferiore e per un oncologo su tre (35%) il livello di preoccupazione e stress si ripercuote sulla qualità dell’assistenza ai pazienti.

“I test sierologici ci permetteranno di capire se un operatore sanitario è entrato in contatto con il virus e se ha sviluppato anticorpi– continua la prof.ssa Berardi – e possono rappresentare un’arma in più per uno screening epidemiologico. Ringrazio il prof. Gian Luca Gregori, Rettore dell’Università Politecnica delle Marche, e il dott. Michele Caporossi, direttore generale degli Ospedali Riuniti di Ancona, per il supporto nella realizzazione di questa indagine che offre una fotografia dello stato attuale dell’oncologia nella lotta al coronavirus. L’equipe che dirigo ha offerto un contributo importante, in particolare Zelmira Ballatore, Filippo Merloni, Nicoletta Ranallo e Lucia Bastianelli”.

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