“La cattiva scienza fa poca strada“: Enrico Bucci, ricercatore in Biochimica e Biologia molecolare e professore alla Temple University di Philadelphia, commenta così su Facebook i due studi ritirati dalle riviste scientifiche “The Lancet” e “New England Journal of Medicine“, basati su dati forniti dall’azienda USA Surgisphere, finita sotto i riflettori del “Guardian” che ne ha messo in dubbio l’attendibilità.
In particolare, l’articolo pubblicato da Lancet lanciava l’allarme su gravi rischi associati all’uso del farmaco antimalarico idrossiclorochina contro Covid-19, mentre quello apparso sul Nejm riguardava l’impiego di comuni medicinali antipertensivi nei pazienti con infezione da coronavirus Sars-CoV-2.
Entrambi gli studi sono stati ritrattati su richiesta degli autori: “Non siamo più in grado di garantire l’attendibilità delle fonti dei dati“, hanno spiegato scusandosi con i lettori e ritirando le firme.
I primi a ritirare le firme sono stati 3 autori sui 4 dello studio pubblicato su Lancet: tutti i coautori del paper (Mandeep Mehra del Brigham and Women’s Hospital di Boston, Frank Ruschitzka dello University Hospital di Zurigo e Amit Patel della University of Utah), eccetto il fondatore e Ceo di Surgisphere, Sapan Desai. Poco dopo è arrivata la ritrattazione del Nejm. Nella rosa degli autori dello studio ritirato anche Mandeep Mehra e Amit Patel, prima e ultima firma, oltre a Sapan Desai di Surgisphere.
“Ha creato sconcerto l’azione di un gruppo di 182 ricercatori – ed in verità anche di tantissimi che hanno discusso on-line evidenziando le crepe di uno dei due articoli – che ha portato alla ritrattazione di due articoli importanti, che hanno influenzato persino OMS e le agenzie come AIFA, pubblicati dai massimo riferimenti fra le riviste mediche – Lancet e New England Journal of Medicine. Questo accade perché tutti, anche i ricercatori, vorrebbero qualcosa di solido e stabile per sempre a cui attaccarsi, e sono stati indotti a credere che la pubblicazione scientifica su riviste prestigiose sia quel qualcosa“: ha spiegato il biologo Enrico Bucci in un post su Facebook.
“Negli ultimi dieci anni il mio lavoro ha portato alla ritrattazione e alla correzione di svariate centinaia di articoli scientifici, anche su Nature, oltre che, in questo ultimo caso, sulle riviste anzidette.
Sento quindi di dovere fare alcune considerazioni anche su questo ultimo caso, che mi ha visto tra i 182 firmatari della lettera aperta a Lancet e della segnalazione a NEJM.
1. Ai suoi albori, secoli fa, la pubblicazione scientifica costituiva spesso il punto di arrivo di una discussione – anche accesa – che si svolgeva fra i membri della comunità dei pari, all’interno delle accademie scientifiche o in forma epistolare. Si trattava appunto di resoconti finali di una discussione, ed esprimevano il parere consolidato circa fatti nuovi o teorie interessanti, e non a caso molte delle riviste scientifiche più prestigiose erano bollettini di accademie scientifiche. Quando è subentrato l’attuale modello commerciale – per cui la pubblicazione scientifica è divenuta un business – l’elemento di novità è divenuto determinante (infatti spesso le riviste non accettano cose già pubblicate o viste altrove). Dunque, quasi sempre la discussione PRIMA della pubblicazione è ristretta al gruppo degli autori ed ai loro amici, anche per paura che altri “rubino” l’idea o i risultati.
2. Contrariamente al passato, l’unica discussione critica di un’idea e dei suoi dati a supporto avviene da parte di due o tre revisori anonimi, prima che un articolo, che ha le caratteristiche di “novità” ed è interessante per le sue implicazioni al punto giusto, finisca sulle pagine di una prestigiosa rivista scientifica.
3. Trattandosi di prodotti di un’impresa commerciale, le riviste scientifiche sono giudicate sulla base della loro “audience”, cioè in base a quante citazioni ricevono. Allo stesso modo, i ricercatori stessi fanno più o meno carriera, secondo quanto riescono a pubblicare su quei “prodotti di lusso” della ricerca che sono le riviste ad alto impatto, e i dipartimenti nei quali lavorano ricevono più o meno finanziamenti e sono più o meno credibili anche sulla base del numero di pubblicazioni su riviste ad alto impatto scientifico.
4. Per quanto discusso, accade che un lavoro su base fraudolenta passi la revisione di 2, massimo 3 esperti, senza che la comunità nel suo insieme possa vederlo, e viene assunto come vero dalle agenzie come OMS e come AIFA solo perché sta nel “contenitore” giusto. In realtà, la comunità scientifica ha potuto cominciare a discutere di quei lavori – come di qualunque altro – solo DOPO la loro pubblicazione. E’ quindi importantissimo che tutti, scienziati e pubblico, capiscano che un articolo su una rivista non è più il punto di arrivo della discussione scientifica, ma è il suo inizio, indipendentemente dalla rivista scientifica che pubblica qualche cosa.
Naturalmente, anche questi 4 punti sono solo una parte delle cose che ci sarebbero da dire; ma a me preme che sia evidente come, in massima parte, il nostro sgomento nasce dalla sacralizzazione della rivista scientifica, figlia dell’interesse commerciale che, promuovendo la novità e l’audience come metriche importanti, ha spostato il peso di accertamento della verità dalla comunità degli scienziati ad un’impresa commerciale – quella dell’editoria scientifica – che ha interessi a pubblicare velocemente e bene ciò che viene rivisto solo da due o tre persone, invece che da un ampio gruppo di scienziati coinvolto in una discussione preliminare di fatti e dati, come un tempo poteva avvenire nelle accademie.
Possiamo quindi senza dubbio affermare che una pubblicazione su Lancet è meglio di una pubblicazione su topolino, ed uno scienziato che arriva a pubblicarvi abbia più ragioni e dati da mostrare di chi non lo fa, ma dobbiamo anche aspettare che un articolo appena pubblicato sia discusso ed approfondito in tutti i suoi aspetti, prima di correre a riempire i titoli dei giornali e le discussioni sui social con il contenuto del suo abstract e delle sue conclusioni.
E dobbiamo promuovere sempre più la discussione critica fra ricercatori di ciò che è stato appena pubblicato, senza accettare che sia valido ciò che, come in questo caso, era sfornito di accesso ai dati primari per effettuare le verifiche dovute.
In questo caso, la comunità scientifica si è appropriata dei suoi spazi, dimostrando ancora una volta che la correzione e l’abbandono del principio di autorità sono ciò che distingue la scienza dal resto.
Open data, open methods, open discussions.”