Virologi, epidemiologi, infettivologi, rianimatori e altri clinici hanno espresso il loro parere su questioni molto dibattute da settimane: Ci sarà una seconda ondata di contagi? Il virus ha perso forza? Quando arriverà il vaccino? Gli asintomatici possono contagiare? Ci sono danni a lungo termine? L’immunizzazione è permanente o si può rischiare di nuovo il contagio?
Ecco cos’hanno risposto alcuni esperti all’AdnKronos Salute.
Ci sarà una seconda ondata di contagi?
“L’ipotesi di una seconda ondata – afferma Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma – nasce da esperienze di altre pandemie. Ma questo è un virus nuovo e non sappiamo come si comporterà. Abbiamo alcune esperienze di altri Paesi nei quali, all’allentamento delle misure di distanziamento, si sono verificate seconde ondate, come Corea e Singapore o all”Iran. E’ necessario capire esattamente cosa è successo in quelle aree. Ma è presto per poter dare risposte certe“.
“Nessuno di noi ha la palla di vetro. Le ipotesi che facciamo derivano dalle esperienze di precedenti pandemie influenzali, come la Spagnola del 1918, ma era un virus diverso. Dunque non mi sento di fare previsioni. Nella malaugurata ipotesi che arrivi penso però che non sarà grave come la prima ondata, non tanto perché il virus sia diventato più buono, ma perché lo conosciamo meglio e sappiamo più cose su come gestirlo. Vorrei dire però che il rischio di una seconda ondata dipende da noi, e da quanto sapremo rispettare le misure chiave per contrastare il virus,” ha affermato all’Adnkronos Salute Roberto Cauda, docente di Malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore.
E’ “possibile una recrudescenza” per il virologo dell’università degli Studi di Milano Fabrizio Pregliasco, che non esclude l’eventualità di una seconda ondata “in autunno, quando le condizioni meteo favoriranno la diffusione di questo virus che potrà nascondersi tra i casi delle varie forme respiratorie virali“. Tuttavia, “la previsione di una seconda ondata si basa sui comportamenti di virus pandemici del passato, che non è detto ci sia se manterremo una buona capacità di tracing dei focolai“.
Possibile una seconda ondata anche per il virologo Guido Silvestri, docente negli Usa alla Emory University di Atlanta: “Non lo sappiamo per certo, ma direi di sì, verso dicembre-gennaio prossimo“.
Secondo Giorgio Palù, past president della Società europea di virologia e professore emerito di Microbiologia dell’università di Padova, “nessuno lo sa con certezza e non mi aggiungo ai tanti divinatori che parlano in questi giorni. Possiamo solo dire che questa è la prima pandemia di coronavirus che l’umanità conosce, probabilmente i virus del raffreddore sono forme zoonotiche che si sono già stabilite nell’uomo, e per analogia con le pandemie influenzali del passato, la cui trasmissione cominciava di solito aprile, aveva uno stop in estate e tornava in autunno (la spagnola addirittura tornò ad agosto-settembre), possiamo affermare che c’è sempre un qualche ritorno dei virus pandemici a trasmissione respiratoria. Questo virus ha infettato oltre 7 milioni di persone riconosciute (ma ce ne saranno 5-6 volte di più) e potrebbe aver trovato il suo ospite naturale e rimane endogeno. Probabile, quindi, ma non ne siamo certi“.
Non è possibile fare previsioni secondo Alberto Zangrillo, direttore delle Unità di anestesia e rianimazione generale e cardio-toraco-vascolare dell’ospedale San Raffaele di Milano: “Con coloro che oggi rispondono ‘sì’ o ‘no’ non voglio avere nulla a che fare“.
Francesco Le Foche, responsabile del day hospital di immuno-infettivologia del Policlinico Umberto I di Roma, ritiene sia “quasi impossibile fare una previsione di questo genere. C’è sicuramente un timore sentito, ma nessuna certezza“.
Per Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell’università di Padova e direttore dell’Unità operativa complessa di microbiologia e virologia dell’azienda ospedaliera patavina: “Non lo può dire nessuno come e quando ci sarà la seconda ondata“. “Sicuramente al momento ci troviamo di fronte a una situazione in cui ci sono ancora molte persone infette, c’è ancora trasmissione. Recentemente a Padova abbiamo avuto un caso importato dalla Moldavia, una persona che si è sentita male ed è andata in ospedale. Esiste quindi ancora la possibilità di infettarsi e sicuramente di importare casi gravi da fuori Italia“.
Non ci sarà una seconda ondata per il premio Nobel per la Medicina 2011 Bruce Beutler, immunologo e genetista americano: “Nella maggior parte dei Paesi europei e degli Stati Uniti, sembra che il tasso di nuovi casi e il tasso di mortalità stiano gradualmente diminuendo, anche se le persone hanno iniziato a uscire di nuovo, a tornare al lavoro e a interagire di più. Insieme ai lockdown, i cambiamenti nel comportamento (distanziamento sociale, uso di mascherine) sembrano avere avuto effetti protettivi. La popolazione non è così vulnerabile come all’inizio, quando nessuna di queste misure era stata intrapresa. Questo è vero, anche se attualmente solo una piccola percentuale della popolazione è stata infettata. Ma tutto ciò mi porta a pensare che non ci sarà una seconda ondata“.
Una seconda ondata epidemica è “probabile” per Pierluigi Lopalco, epidemiologo dell’Università di Pisa e coordinatore scientifico della task force pugliese per l’emergenza coronavirus, “a meno che non si riesca a controllare la circolazione del virus durante l’estate e si faccia una forte azione di prevenzione in autunno“.
“Il virus è evidentemente penetrato pesantemente nel nostro Paese, per cui non credo che se ne andrà così facilmente. In futuro ci saranno, quindi, anche altri casi, ma pensare a una seconda ondata con la stessa aggressività di marzo francamente mi pare un po’ difficile. Sicuramente perché siamo più bravi e poi il sistema è più pronto. Ci sono i reparti, i laboratori, la medicina di base, le Rsa sono responsabilizzate, credo che se ci sarà ad ottobre avremo insieme ai mali di stagione anche Covid-19 che ci auguriamo non sarà più un evento pandemico o epidemico ma focalizzato,” ha spiegato Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova e componente della task force Covid della Regione Liguria.
Il Coronavirus è diventato più “buono”?
Di seguito le risposte degli esperti all’Adnkronos Salute.
“Al momento è stata rilevata una mutazione rispetto al ceppo di Wuhan sulla proteina D614g che lo ha resto più contagioso. Non ci sono ancora evidenze per dire che il virus sarebbe diventato ‘più buono’: quello che possiamo dire è che aumentano le segnalazioni di forme cliniche meno gravi. E questo può essere legato a vari fattori: il lockdown ha ridotto la circolazione, e cambia l’età dei soggetti colpiti, mentre nelle prime fase si sono ammalati i più fragili. Inoltre i tamponi sembrano rilevare una ridotta carica virale,” ha affermato Roberto Cauda, docente di Malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore.
“Il lockdown, riducendo le occasioni di contagio, ha ridotto la diffusione del virus. Per questo, vedendo pochi casi, la quota di casi gravi è limitata” anche perché “si tratta di una malattia a basso rischio individuale,” ha spiegato il virologo dell’università degli Studi di Milano Fabrizio Pregliasco.
Giorgio Palù, past president della Società europea di virologia e professore emerito di Microbiologia dell’università di Padova, ha dichiarato: “Lo dicono molti clinici, pneumologi, anestesisti che i sintomi sono meno aggressivi, che la morbosità è diminuita e questo può essere dovuto alla virulenza: quest’ultima è un tratto genetico del virus, che quindi o ha perso un gene o ha a un gene che si è iperattivato. Sappiamo che ci sono più di 8mila mutazioni, ma bisognerebbe studiarle tutte isolatamente e vedere che effetto fanno. In assenza di questi dati è corretto dire che stiamo diagnosticando e curando molto meglio la malattia, per cui è chiaro che vediamo casi meno gravi. Stiamo imparando di più e stiamo trattando di più, abbiamo visto ad esempio quali farmaci antivirali funzionano e quali no e questo di sicuro fa la differenza. E poi alla fine di un’epidemia (e qua siamo alla fine, con un Rt sotto 1 dovunque e 1 su 1000 positivo al tampone) un virus ha difficoltà a trasmettersi e, anche se lo fa, quella che si diffonde è una dose infettante ridotta“.
Per Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell’università di Padova e direttore dell’Unità operativa complessa di microbiologia e virologia dell’azienda ospedaliera patavina, i coronavirus “sono imprevedibili. Secondo me, con questi livelli di trasmissione, ci stanno aiutando solo le condizioni climatiche favorevoli. Tutti i coronavirus studiati finora si sono dimostrati in qualche modo sensibili alle condizioni climatiche. Questo potrebbe non fare eccezione. Speriamo sia così“. Quanto alla possibilità che il virus abbia perso forza, “non è provata scientificamente. E’ sotto gli occhi di tutti che i casi che ci sono adesso sono meno gravi di quelli che registravamo un po’ di tempo fa. Secondo molti, questo è dovuto alla carica virale bassa“. “Quando usiamo le mascherine e rispettiamo il distanziamento sociale, se ci infettiamo ci infettiamo sicuramente con molti meno virus rispetto a quelli con cui ci infetteremmo se non usassimo queste misure di protezione. In tutte le malattie la carica microbiologica ha un impatto sulla gravità. Non vedo perché questo coronavirus debba far da eccezione“.
“E’ un dato di fatto che il virus abbia perso forza – secondo Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova e componente della task force Covid della Regione Liguria – Abbiamo sempre meno ricoveri di elevata complessità e la rappresentazione clinica dei pazienti nei nostri pronto soccorso è completamente diversa rispetto a marzo. Chi arriva non ha più quel quadro clinico devastante che si vedeva all’inizio dell’epidemia, oggi somiglia più a quello influenzale con febbre, tosse, stanchezza e congiuntivite“.
Per Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma, “l’analisi delle sequenza virale non ci dice che il virus abbia perso forza. Ci vorranno ancora molti studi per affermarlo con certezza. Ma non bisogna concentrarsi sul ‘virus che perde forza’. Serve valutare anche il modo con cui interagisce con l’ospite, la densità di circolazione del virus in una determinata area e la modalità con cui alcune persone si espongono a massive quantità di virus allo stesso momento. Questa è la logica con cui dobbiamo ragionare”
Secondo Francesco Le Foche, responsabile del day hospital di immuno-infettivologia del Policlinico Umberto I di Roma, “quello che è certo è che ora abbiamo sindromi più lievi, date sicuramente da una ridotta carica virale. Abbiamo molti asintomatici e abbiamo dei paucisintomatici. Non abbiamo certezze ma che il virus abbia fatto un passo in avanti per essere più ‘accomodante’ con la cellula che lo ospita sembrerebbe essere una tesi accreditata“.
Il virus, in ogni caso, spiega Pierluigi Lopalco, epidemiologo dell’Università di Pisa e coordinatore scientifico della task force pugliese per l’emergenza coronavirus, “circola di meno e colpisce una popolazione più giovane in cui non produce casi gravi. Non abbiamo però prove che le mutazioni subite dal virus abbiamo modificato la sua virulenza“.
Quando arriverà il vaccino?
Di seguito le dichiarazioni degli scienziati all’AdnKronos Salute.
Per Fabrizio Pregliasco, virologo dell’università degli Studi di Milano, “ammesso che si individui un vaccino efficace – cosa che non è detta, vedi Hiv ed epatite C – ci vuole tempo per gli studi di sicurezza, ma anche per la produzione su grande scala“. Potrebbero dunque essere necessari “1-2 anni, ammesso poi che la problematica non vada a scemare“.
Per il direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell’università di Padova e direttore dell’Unità operativa complessa di microbiologia e virologia dell’azienda ospedaliera patavina, Andrea Crisanti, “ci vorranno perlomeno altri due anni e mezzo, a meno di non prendere scorciatoie di carattere etico, cioè vaccinare e poi infettare le persone, e penso sia una cosa assolutamente inaccetabile anche perché a questi studi concorrono sempre persone vulnerabili“. Per fare un vaccino “ci vogliono anni, non mesi. Non esiste un vaccino fatto in meno di 3 anni, 3 anni e mezzo. E’ fantascienza, se si vogliono rispettare criteri rigorosi e scientifici e determinati criteri etici“.
Secondo Giorgio Palù, past president della Società europea di virologia e professore emerito di Microbiologia dell’università di Padova, “si può prevedere che fra i circa 130 preparati vaccinali in allestimento qualcuno emerga come efficace. Sicuramente quello cinese prodotto con il virus attenuato in formalina (un vecchio tipo di vaccino) nell’animale funziona molto bene. Gli altri per rapidità sono stati provati su volontari umani per vedere se facessero produrre anticorpi neutralizzanti. Ma non si può usare l’uomo come cavia per cui non sapremo precisamente quando avremo un vaccino di questo tipo. Io mi sono fatto un’idea: vediamo molti soggetti guariti che sembrano re-infettarsi, in realtà è il tampone che esce falsamente negativo“. “Se non si supera l’infezione nella prima settimana e il virus va in profondità e in circolo, c’è la possibilità che l’infezione si prolunghi: in quei casi quella che importa non è più l’immunità data dagli anticorpi circolanti ma anche l’immunità cellulare, perché le cellule infettate possono trasmettere il virus senza che gli anticorpi lo captino. In sintesi, credo che dovremo usare varie piattaforme vaccinali, compresa una che dia anche un’immunità cellulo-mediata. Prima di un anno e mezzo, comunque, non avremo nessun vaccino e quando arriverà sarà per uso sperimentale nei soggetti più a rischio. Non sarà subito per tutti“.
“Se tutto va bene, avremo un vaccino per la primavera-estate del 2021“, ha affermato il virologo Guido Silvestri, docente negli Usa alla Emory University di Atlanta.
“Ci sono opinioni realistiche secondo cui il vaccino potrebbe essere prodotto su larga scala dall’inizio del prossimo anno. Tuttavia, non vi è alcuna certezza al riguardo“, ha spiegato Bruce Beutler, immunologo e genetista americano, premio Nobel per la Medicina 2011.
Per Francesco Le Foche, responsabile del day hospital di immuno-infettivologia del Policlinico Umberto I di Roma, il vaccino potrebbe “arrivare tra la fine dell’anno e i primi mesi del 2021. Questi sono i tempi ipotizzabili“.
In ogni caso, secondo Pierluigi Lopalco, epidemiologo dell’Università di Pisa e coordinatore scientifico della task force pugliese per l’emergenza coronavirus, avremo un vaccino “appena uno o più candidati abbiano dimostrato di essere sicuri ed efficaci. Ottimisticamente nel primo semestre 2021“.
Gli asintomatici sono contagiosi?
Ecco le risposte degli esperti All’AdnKronos Salute.
“La risposta è sì, senza alcuna esitazione. Ce lo conferma uno studio sugli ‘Annals of Internal Medicine’ su 16 coorti, fra cui quella di Vo’. Mediamente il 40-45% degli infettati è asintomatico e abbiamo visto che questi soggetti, difficili da individuare, hanno favorito la diffusione del virus e sono un po’ il tallone d’Achille delle misure preventive di sanità pubblica,” ha risposto Roberto Cauda, docente di Malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Che gli asintomatici possano contagiare è “ancora da dimostrare compiutamente“, secondo Fabrizio Pregliasco, virologo dell’università degli Studi di Milano. “Per omologia con altri virus si può dire che un sintomatico che tossisce e starnutisce sicuramente può emettere una maggior carica virale infettante. Però con un soggetto asintomatico possiamo passare più tempo in modo inconsapevole“.
Giorgio Palù, past president della Società europea di virologia e professore emerito di Microbiologia dell’università di Padova, ha spiegato: “Abbiamo visto una decina di lavori pubblicati, secondo cui il contagio avviene anche da asintomatici che possono avere una concentrazione del virus a livello nasale altrettanto alta. Credo sia paradossale che ora ci si venga a dire che non vale la pena fare tamponi agli asintomatici. Perché se li stiamo facendo ai contatti dei casi positivi, questi sono asintomatici per definizione. Allora dovrebbe cadere tutta l’impalcatura del sistema. C’è un po’ di contraddizione mancano però studi estensivi su larghe fette di popolazione per avere certezze“.
“Nella fase prima dei sintomi gli asintomatici possono sicuramente contagiare – precisa il virologo Guido Silvestri, docente negli Usa alla Emory University di Atlanta – quando sono residuali di una infezione vecchia di settimane di solito no, come mostra lo studio coreano di Oh e colleghi“.
Per Bruce Beutler, immunologo e genetista americano, premio Nobel per la Medicina 2011, “sì, il contagio senza sintomi può avvenire. Tuttavia, una persona asintomatica è probabilmente meno infettiva di una persona sintomatica“.
“C’è un studio cinese che dimostrerebbe che un soggetto asintomatico positivo messo insieme ad un gruppo consistente, non ha trasmesso a nessun soggetto la malattia – ha spiegato Matteo Bassetti, direttore della Clinica di malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova e componente della task force Covid della Regione Liguria – Dobbiamo essere cauti e distinguere 4 categorie di asintomatici: i puri cioè quelli che rimangono sempre asintomatici senza nessun sintomo e, probabilmente, hanno una carica virale molto bassa; gli asintomatici nella prodromica dell’infezione, ovvero nella fase di incubazione e questi hanno un carica virale molto alta, oggi sono asintomatici ma tra una settimana possono manifestare i sintomi; poi ci sono quelli poco sintomatici (non si accorgono di avere i sintomi ma ce li hanno, un po’ di stanchezza o una blanda congiuntivite), con una carica virale alta; infine i guariti, non hanno sintomi ma il tampone è positivo, la carica virale è bassa“.
Pierluigi Lopalco, epidemiologo dell’Università di Pisa e coordinatore scientifico della task force pugliese per l’emergenza coronavirus, ha riposto: “Certamente sì, gli asintomatici possono contagiare. In particolare i pre-sintomatici e i paucisintomatici“.
Francesco Le Foche, responsabile del day hospital di immuno-infettivologia del Policlinico Umberto I di Roma, ricorda che sul tema “c’è un confronto e studi in atto. Credo però ci siano vari livelli da considerare. Il primo è che se una persona è asintomatica, ma sta per sviluppare la malattia potrebbe senza dubbio contagiare. Poi ci sono i paucisintomatici, hanno pochi sintomi ma hanno la malattia, quindi sono contagiosi. Poi c’è l’asintomatico vero che, invece, è molto improbabile possa contagiare“.
Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma, chiarisce: “Abbiamo sempre detto che gli asintomatici potevano contagiare. Ovviamente in circostanze particolari. Soprattutto nelle ultime 48 ore prima della comparsa dei sintomi“.
Per il genetista Giuseppe Novelli, dell’Università di Tor Vergata, la risposta è “sì, ci sono evidenze che gli asintomatici possano trasmettere Covid. Tuttavia una persona asintomatica è probabilmente meno infettiva di una sintomatica. Stiamo cercando di capire cosa hanno di speciale gli asintomatici“.
Il Coronavirus crea danni a lungo termine?
Ecco cos’hanno risposto gli esperti all’AdnKronos Salute.
“La Società italiana di pneumologia ha detto che, dopo essere guariti, ci possono essere dei danni, ma serve del tempo per capire per quanto tempo questi danni possono persistere“, ha dichiarato Roberto Cauda, docente di Malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Alberto Zangrillo, direttore delle Unità di anestesia e rianimazione generale e cardio-toraco-vascolare dell’Irccs meneghino cita “soprattutto forme di fibrosi polmonare cronica ed eventuali esiti da complicanza di una malattia che, nelle forme gravi, è stata sistemica“.
Molti pazienti che sono stati infettati da Sars-Cov-2, spiega Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell’università di Padova e direttore dell’Unità operativa complessa di microbiologia e virologia dell’azienda ospedaliera patavina, “lamentano un malessere, una sintomatologia che sicuramente è la conseguenza di questa infezione“, che, “in alcuni casi si associa a danni permanenti respiratori, cardiaci e renali. Sono infatti polmoni, cuore e reni gli organi più colpiti“.
“Sembra che il 30% dei pazienti abbia almeno nei mesi successivi alcuni risentimenti a livello respiratorio”, ha dichiarato il virologo dell’università degli Studi di Milano Fabrizio Pregliasco. “Dovremo avere più tempo per un follow-up ma diversi studi evidenziano danni presumibilmente anche permanenti a livello cardiaco e di altri organi. Solo il tempo ci dirà la rilevanza effettiva di questi postumi“.
Giorgio Palù, past president della Società europea di virologia e professore emerito di Microbiologia dell’università di Padova, risponde che “alcuni fra i soggetti che hanno avuto una sintomatologia rara, come la perdita dell’olfatto, hanno mantenuto questa sintomatologia. Quello che ci preoccupa di più, e che Sars e Mers ci hanno insegnato nei sopravvissuti, è che chi ha avuto una patologia polmonare, possa mantenere una formazione fibrotica del tessuto polmonare, una sorta di cicatrice che è un danno a distanza, così potrebbe succedere nel fegato e nel rene. Non sappiamo se possa avvenire nel cervello, qualcuno ha riportato a seguito dell’influenza spagnola malattie come il Parkinson, ma ci vorranno anni per capirlo per il Sars-Cov-2“.
“Nelle persone gravemente colpite che sopravvivono all’infezione, il danno polmonare può essere permanente e invalidante“, precisa Bruce Beutler, immunologo e genetista americano, premio Nobel per la Medicina 2011.
Secondo Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova e componente della task force Covid della Regione Liguria, “su chi ha avuto forme polmonari di Covid-19 con altre localizzazioni, sarà importante andare a valutare gli effetti a lungo termine. In Liguria abbiamo un piano molto attento per fare un ‘follow-up’ preciso di tutti i pazienti che hanno avuto Covid-19 e valutarne le conseguenze su polmoni, reni, cuore e sistema coagulativo“.
Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, precisa che, al momento “non lo sappiamo se il Covid 19 possa lasciare segni a lungo termine, troppo presto per dirlo. Al momento i dati attuali ci fanno solo pensare che, per chi ha avuto forme gravi, ci vogliano tempi lunghi per il recupero“. Intanto, “tutti i reparti di malattie infettive italiani hanno un programma di valutazione a lungo termine delle persone che si sono ammalate. E questo ci permetterà di vedere i dati nel tempo. Ma è probabile che la maggior parte di chi si è ammalato recupererà, considerando le prime evidenze disponibili“.
Francesco Le Foche, responsabile del day hospital di immuno-infettivologia del Policlinico Umberto I di Roma, ha spiegato: “Al momento stiamo valutando, ci sono ipotesi di studio. Ci sono una serie di ambulatori impegnati a valutare i pazienti post Covid a lungo termine, controllando le condizioni delle persone che hanno avuto forme gravi di Covid 19. I controlli vengono fatti con un percorso ambulatoriale complesso che prevede molti accertamenti e ci permetterà di avere molti dati“.
Pierluigi Lopalco, epidemiologo dell’università di Pisa, ricorda che già “sono documentati danni a medio-lungo termine dopo i casi gravi di malattia“.
I guariti sono immuni?
Le risposte degli scienziati all’AdnKronos Salute.
Roberto Cauda, docente di Malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore, spiega: “Da studi internazionali sappiamo che i guariti sviluppano anticorpi neutralizzanti, che poi sono presenti nel sangue dei convalescenti usato a scopo terapeutico. Quello che ancora non sappiamo è quanto durano questi anticorpi e per quanto tempo si conservano a livelli tali da essere protettivi: nel caso della Sars diversi anni“.
Per il virologo Andrea Crisanti, analizzando il plasma dei guariti, “non tutte le persone che si infettano fanno anticorpi neutralizzanti. Noi abbiamo rilevato che solo il 30-40% ha titoli di anticorpi che possono essere utilizzati in terapia“. “E’ troppo presto” per dire che tipo di immunità dà il coronavirus. “In genere non inducono immunità permanente. Fra qualche mese, comunque, potremo capire di più su Sars-Cov-2. Ci sono studi in corso, su questo fronte stiamo lavorando anche noi a Padova“.
“Quello che sappiamo sempre per analogia – risponde Giorgio Palù, past president della Società europea di virologia e professore emerito di Microbiologia dell’università di Padova – perché ancora non conosciamo la ‘full story’, è che nei sopravvissuti di Sars e Mers gli anticorpi resistevano per più di 3 anni. Per altri coronavirus, da studi condotti negli anni ’80-’90 sui virus del raffreddore, a un anno di distanza erano ancora protetti. Uno studio non pubblicato di Harvard con una previsione matematica sui titoli anticorpali ha affermato che dovrebbero durare almeno 1 anno. Ancora non lo sappiamo e non possiamo fidarci nemmeno di queste previsioni, dobbiamo verificarlo sperimentalmente su un numero rilevante di soggetti“.
“Le persone che hanno avuto una forte risposta anticorpale – ha affermato Bruce Beutler, immunologo e genetista americano, premio Nobel per la Medicina 2011 – hanno probabilmente meno probabilità di contrarre la malattia una seconda volta e possono conferire ‘immunità di gregge’, proteggendo effettivamente gli altri, perché non sono più in grado di essere untori. Ma come per la domanda sul vaccino, non c’è ancora abbastanza esperienza per conoscere il grado o la durata dell’immunità“.
“Chi si ha sviluppato le Igg diventa immune e non c’è rischio di avere nuovamente la malattia. La cosa che non sappiamo è per quanto tempo si rimane immuni, 6 mesi, 12 mesi o due anni? Se guardiamo alla Sars ci sono dati che dicono che almeno per 12-24 mesi queste difese dovrebbero mantenersi“, ha spiegato Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova e componente della task force Covid della Regione Liguria.
“Ancora una volta – dice invece il direttore scientifico dell’Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma, Giuseppe Ippolito – sappiamo poco. Difficile dire quanto duri questa immunità. Alcune sperimentazioni indicano che si tratta di un’immunità di breve durata e soprattutto che il ciclo di questi anticorpi sia limitato. Ma servono dati a lungo termine“.
Francesco Le Foche, responsabile del day hospital di immuno-infettivologia del Policlinico Umberto I di Roma, risponde: “Non lo sappiamo. Se l’immunizzazione ha lo stesso andamento che ha nella Sars dovrebbe mantenersi per 2 o 5 anni. Ma è un virus nuovo. Va quindi controllata la durata nel tempo degli anticorpi neutralizzanti“.
Non ci sono certezze secondo Pierluigi Lopalco, epidemiologo dell’Università di Pisa e coordinatore scientifico della task force pugliese per l’emergenza coronavirus, che risponde: “Non lo sappiamo“.