Pittore, scultore, disegnatore, architetto, anatomista, ingegnere e filosofo: così è universalmente conosciuto Leonardo da Vinci che, può essere considerato anche uno dei precursori della moderna geologia per come descrisse e interpretò le rocce stratificate, giungendo persino a capire la vera natura dei fossili, rigettando il ruolo del Diluvio Universale come spiegazione per il rinvenimento di conchiglie in rocce affioranti nelle aree montane e a grande distanza dalla costa. La recente analisi di un passaggio contenuto nel famoso Codex Arundel – un’imponente raccolta di manoscritti leonardiani autografi conservata presso la British Library di Londra – suggerisce che le riflessioni di Leonardo sulla geologia e in particolare sui fossili potrebbero essere state ancora più ampie, includendo anche i vertebrati marini: Leonardo si dimostra, pertanto, anche precursore della Paleontologia dei Vertebrati, oltre 300 anni prima di George Cuvier, il grande naturalista francese padre di questa disciplina, riporta un comunicato stampa dell’Università di Pisa.
Lo studio, appena pubblicato nella rivista internazionale Historical Biology, è firmato da Alberto Collareta, Marco Collareta e Giovanni Bianucci dell’Università di Pisa e da Annalisa Berta dell’Università di San Diego (California, USA). “Uno dei fogli che costituiscono il Codex Arundel – spiega Alberto Collareta, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra – contiene la descrizione delle spoglie di un poderoso mostro marino che è stata a lungo interpretata come divagazione fantastica o metaforica del giovane Leonardo, se non come vera e propria rielaborazione poetica di presunte letture classiche del genio toscano. Descritto come un “potente e già animato strumento dell’arteficiosa natura”, in passato capace di terrorizzare colla sua furia “le impaurite schiere de’ delfini e de’ gran tonni”, separato da tempo incommensurabile dall’ambiente marino ed oggi ridotto a poche “spolpate ispogliate e ignude ossa”, il mostro descritto da Leonardo giace ora sulla terraferma, facendo da “armadura e sostegno” ai rilievi circostanti“.
Il testo leonardiano, ricco in frasi incomplete e tormentate correzioni, è tuttavia abbastanza esplicito, tanto da aver suggerito alla biologa statunitense Kay Etheridge l’identificazione del mostro marino con una balena fossile, un’ipotesi pubblicata dalla stessa ricercatrice nel 2014. La ricostruzione di Etheridge, però, ha un punto debole di non poco conto: l’analisi avanzata dalla scienziata sembra infatti implicare che, secondo il testo leonardiano, l’incontro del genio vinciano con una balena fossile sarebbe avvenuto in un ambiente alquanto inusuale, ovvero in una caverna. Le caverne della Toscana sono talvolta sede del ritrovamento di fossili di vertebrati terrestri, ma non certo di cetacei. L’ipotesi di un Leonardo precursore della paleontologia dei vertebrati sembrava dunque essere giunta a un vicolo cieco.
“Tuttavia – continua Alberto Collareta – la Toscana di Leonardo è una vera e propria “terra di balene” – fossili, ovviamente – che ha origine antiche. Se passeggiando tra le colline toscane che si estendono dall’Appennino alle pianure costiere potessimo viaggiare a ritroso nel tempo sino all’epoca che i geologi chiamano Pliocene (da circa 5,3 a circa 2,6 milioni di anni fa), osserveremmo un paesaggio assai diverso da quello odierno, nettamente dominato dal composto più abbondante sulla superficie del nostro pianeta: l’acqua. Infatti, durante il Pliocene, buona parte del territorio toscano era sommerso da un mare popolato da una grande varietà di organismi. I profondi mutamenti geologici e climatici intercorsi da allora hanno rimodellato il territorio, rendendolo una “miniera a cielo aperto” ricca di indizi che, se debitamente interpretati, possono svelare le antiche origini dell’ambiente attuale. Buona parte delle colline toscane, compresi i rilievi su cui sorge Vinci (il paese natale di Leonardo, in cui egli visse sino alla giovinezza), è costituita prevalentemente da sabbie e argille depositatesi su antichi fondali marini e ancora oggi custodisce resti delle faune marine plioceniche. Reperti fossili di balene, delfini, dugonghi e squali – insieme a resti di molluschi, crostacei e altri invertebrati – sono spesso rinvenuti nei campi di girasoli, nei vigneti, ai piedi dei calanchi e lungo i fianchi delle colline che si sviluppano sui terreni pliocenici toscani. Ne sono prova la recente scoperta del delfino estinto Casatia thermophila, un lontano parente del narvalo e del beluga attuali (cetacei artici per eccellenza) che, 5 milioni di anni fa, abitava il mare (tropicale!) del grossetano, e la ricca collezione di cetacei fossili toscani (tra cui figurano alcuni rinvenimenti ottocenteschi) in esposizione presso il Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa“.
“È proprio da questo ricco scenario paleontologico – afferma Giovanni Bianucci, anch’egli paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra – che abbiamo deciso di riconsiderare la questione del mostro marino leonardiano. Sono troppe, a nostro avviso, le assonanze con l’aspetto delle balene fossili che, sino dal XVIII secolo, sono note attraverso il ritrovamento di fossili che, nel complesso, hanno permesso di scrivere un capitolo importante della storia evolutiva dei cetacei”.
“La nostra attenzione – spiega Marco Collareta, storico dell’arte del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere – si è dapprima focalizzata su un’attenta analisi del testo leonardiano e sui presunti riferimenti alla caverna. Nonostante Leonardo menzioni, in una frase incompleta (“per le chavernose e ritorte interiora”), il termine ‘cavernoso’, quest’ultimo ha nei testi leonardiani un significato prevalentemente tessiturale – è cioè un’indicazione di porosità e permeabilità ai fluidi, ed è utilizzato da Leonardo in riferimento alla capacità delle rocce (e, più in generale, della Terra) di permettere la percolazione delle acque piovane. L’intera espressione “per le chavernose e ritorte interiora”, nel linguaggio leonardesco e in generale dell’epoca, non si adatta a descrivere un antro sotterraneo quanto piuttosto l’aspetto dello scheletro fossile o dei sedimenti inglobanti. Inoltre, il fatto che il foglio che contiene la descrizione del mostro marino sia posto, nell’attuale impaginazione del Codex Arundel, a seguito di un foglio il cui testo tratta della visita di Leonardo ad una caverna, non è indice di consequenzialità logica o cronologica tra i due brani”.
Il Codex Arundel fu infatti assemblato dopo la morte di Leonardo e i fogli che lo compongono, forse derivanti da più fonti, furono artificialmente riaggregati in raccolte ‘miscellanee’. Dunque, Leonardo scrive chiaramente di aver visitato una grotta in gioventù, alla ricerca di meraviglie custodite dalle viscere della terra, ma non vi trovò certo i resti del ‘mostro marino’.
“Esistono tuttavia molte indicazioni – continua Alberto Collareta – che suggeriscono che il giovane Leonardo abbia davvero osservato una balena fossile, come suggerito da Etheridge, e che questo avvenimento abbia significativamente indirizzato la sua riflessione paleontologica e geoscientifica in un senso straordinariamente moderno. Leonardo sembra infatti compiere vere e proprie considerazioni tafonomiche (relative cioè allo stato di conservazione del fossile da lui descritto: si ricordi la già citata espressione “per le cavernose e ritorte interiora”) sui resti del mostro marino; inoltre il retro del foglio su cui tale descrizione è riportata ha inizio con una breve frase relativa all’osservazione di due strati di conchiglie fossili, e all’impossibilità razionale di spiegarli entrambi attraverso il solo Diluvio Universale. Chiare rielaborazioni del testo sul mostro marino compaiono inoltre in un altro manoscritto leonardiano in cui la superficie terrestre è descritta come in continua trasformazione e capace persino di ‘fagocitare’ le vestigia delle antiche civiltà. Qui il mostro marino è persino descritto ripetutamente come ‘setoluto’, un termine che ricorda i fanoni, strutture cornee filamentose che caratterizzano le balene attuali. Il passaggio leonardiano sul mostro marino contiene inoltre espliciti riferimenti alla ‘incommensurabilità’ del tempo geologico (“quanti re quanti popoli [h]ai tu disfatti… po’ che la maravigliosa forma di questo pesce qui morì”) che ha visto l’ambiente intorno alle spoglie del mostro marino mutare radicalmente, da mare divenendo infine terraferma attraverso “nuove e varie abitazioni”. La collocazione del mostro marino, che Leonardo descrive come facente da “armadura e sostegno” ai rilievi circostanti, suggerisce inoltre un posizionamento lungo il fianco di una collina – uno scenario perfettamente compatibile con le condizioni più tipiche del rinvenimento delle balene fossili toscane.
Non da ultimo, un censimento dei rinvenimenti di cetacei fossili toscani dimostra come, nel corso degli ultimi due secoli, almeno otto località toscane nelle vicinanze di Vinci abbiano restituito resti fossili significativi di grandi balene”.
“Piuttosto che una divagazione fantastica su temi della letteratura antica, il testo leonardiano sul mostro marino sembra dunque rappresentare la più antica descrizione ad oggi nota di un cetaceo fossile – conclude Giovanni Bianucci. Essa sembra aver avuto un impatto significativo sul successivo sviluppo del pensiero di Leonardo in ambito geo-paleontologico, che nel complesso mostra tratti di strabiliante modernità. Sarebbe tuttavia anacronistico descrivere Leonardo come padre della geologia e della paleontologia moderne, giacché le sue riflessioni rimasero in grandissima parte in forma di appunti privati che, in quanto tali, non ebbero risonanza tra i ‘filosofi della natura’ suoi contemporanei. Due secoli più tardi, toccherà a un altro grande genio, il danese Niels Stensen (spesso italianizzato in Nicola Stenone e giustamente celebrato come Fundator Geologiae), replicare le principali osservazioni geologiche compiute da Leonardo (ancora una volta, tra le colline plioceniche della Toscana!), sintetizzarle in pochi principi dalla valenza universale, e pubblicarle in un famoso saggio dato alle stampe nel 1669. L’anno successivo, in un opuscolo significativamente intitolato “La vana speculazione disingannata dal senso”, il pittore siciliano Agostino Scilla descriverà, illustrerà ed interpreterà correttamente alcuni resti fossili di vertebrati marini, tra cui un cetaceo appartenente alla famiglia estinta degli squalodontidi. Ancora un paio di secoli più tardi saranno illustri naturalisti (sia accademici che ‘amatori’ di altissimo livello) dell’ottocento italiano, tra cui spiccano i nomi di Giovanni Capellini e Roberto Lawley, a produrre i primi studi sui vertebrati marini del Pliocene toscano, rendendo così noto lo straordinario patrimonio paleontologico della Toscana alla comunità scientifica internazionale”.
Chissà se Stenone, Scilla, Capellini e Lawley ebbero mai la consapevolezza di ripercorrere i passi di Leonardo da Vinci. Se così non fosse stato, non possiamo certo farne loro una colpa: tutto fa infatti pensare che i meriti e le intuizioni del grande genio toscano in campo geologico e paleontologico debbano essere ancora oggi pienamente riconosciuti, conclude il comunicato stampa.