“Abbiamo visto infarti completamente diversi da quelli che eravamo abituati a vedere. Gli facevamo la coronarografia e vedevamo poltiglia di trombo. Abbiamo detto: attenzione, perché c’è una risposta trombotica esageratamente alta nei pazienti con Sars-CoV-2. E ora non sappiamo ancora quali segni ha lasciato Covid per il futuro“. Claudio Cuccia, direttore Dipartimento cardiovascolare della Poliambulanza di Brescia, racconta i giorni dell’emergenza più dura in una delle aree più colpite dal nuovo coronavirus, a margine dell’incontro a Palazzo Lombardia fra l’assessore al Welfare della Regione, Giulio Gallera, e i rappresentanti dei 13 centri individuati come hub in cardiologia per garantire le cure in pandemia.
“Ancora adesso vediamo accessi tardivi al pronto soccorso, vediamo pazienti che hanno avuto episodi di dolore toracico che corrispondevano a degli infarti nei mesi di marzo-aprile-maggio, hanno resistito a casa ma non avendo potuto usufruire di cure immediate oggi arrivano con una disfunzione cardiaca molto importante e tardiva“, conferma Carlo Mario Lombardi, dell’università degli Studi di Brescia e Cardiologia Spedali Civili, struttura dove “è stato descritto – ricorda lo specialista – il primo caso di miocardite da Covid-19 in una donna giovane arrivata tardi in ospedale. Oggi sta bene, ma la ricordiamo come un caso molto grave e impegnativo anche da un punto di vista emotivo“.
I dati raccolti in 12 dei 13 centri hub confermano che “dal 21 febbraio al 7 maggio, 953 pazienti sono stati ricoverati per sindrome coronarica acuta, il 50% dei quali trasportati dal 118, dati più o meno simili a periodi non Covid. Fra questi, i pazienti con diagnosi Covid erano il 17%. Ma il risultato impressionante è che la fase ospedaliera ha un dato di mortalità e shock cardiogeno totalmente sbilanciato per questi malati positivi al virus – precisa Luigi Oltrona Visconti, direttore Struttura complessa Cardiologia del Policlinico San Matteo di Pavia – Si parla di 32% di mortalità: sono dati da infarto degli anni ’40-’50, normalmente oggi la percentuale oscilla dal 3 al 6%“.
“Il paziente Covid – prosegue Oltrona Visconti – è stato ‘pesante’. Si vede subito come è più impegnato sul fronte cardiologico e anche sistemico. E’ un paziente più grave, con un’espressione di urgenza maggiore rispetto a quello che succede normalmente. E ha una sintomatologia più confondente, tanto che ha tempi più lunghi che intercorrono dal momento in cui identifica i sintomi al primo contatto medico. Sottovaluta il sintomo infarto, ritarda la venuta in ospedale anche per paura. Sicuramente abbiamo notato l’arrivo tardivo di patologie acute e lo possiamo dimostrare perché abbiamo visto un incremento delle complicanze dell’infarto, come per esempio difetti interventricolari o la trombosi ventricolare sinistra che sono proprio segni di presentazione tardiva”. Questo dato, chiosa Montorfano, “ci ha fatto riflettere su quanto il problema ha interessato la popolazione. Stimiamo che i pazienti che si sono presentati tardivamente siano stati intorno al 30-40% degli eventi acuti, rispetto all’epoca pre-Covid quando questo era un fenomeno ormai inesistente. E nei prossimi mesi vedremo di certo una quota di malati con alle spalle infarti non curati, che danno per esempio cardiomiopatita dilatativa post ischemica, complicanza che vedremo probabilmente accrescere come incidenza”. Durante il periodo emergenziale, secondo i dati raccolti negli hub lombardi portati da Oltrona Visconti, “i casi ‘Stemi’, che sono quelli che hanno un aspetto di maggior urgenza, sono stati il 58%. Il 98% ha fatto la coronarografia e l’84% l’angioplastica. Dal punto di vista del soccorso e della cura, si può dire quindi che il sistema ha tenuto”.
“E’ possibile – precisa Cuccia – che questa infiammazione che ha preso pazienti gravi sia veicolo di qualcosa che può ripresentarsi anche a livello extra infettivo. I segni a livello vascolare, cerebrale, cardiaco, renale ci sono stati, li abbiamo visti. I malati Covid, non solo quelli cardiopatici, sono pazienti oggi più vulnerabili. Ma queste vulnerabilità non sono ancora non ben definite. E’ un mondo di ricerca che deve avere un orizzonte più ampio, dobbiamo scoprire quali esiti ci sono stati e cosa potranno dare in futuro”.
Come cardiologi, riflette Lombardi, “abbiamo capito che questo virus ha una fortissima affinità per il cuore non solo perché può generare patologie cardiache come miocarditi acute in soggetti sani, ma anche perché è particolarmente aggressivo nei cardiopatici, tanto che abbiamo visto tassi di mortalità molto elevati soprattutto a marzo-aprile. Dovremo adesso gestire il follow up dei ‘sopravvissuti’ e capire quali sequele non solo cardiologiche avranno. E probabilmente costruire percorsi dedicati ai cardiopatici colpiti da Covid. Al momento vediamo persone con recuperi molto lenti, in alcuni la funzione cardiaca si è ridotta a seguito dell’infezione. Il resto lo vedremo nei prossimi mesi”.
“A Lecco, con un grant di Fondazione Veronesi, stiamo lavorando su questo approccio per i pazienti Covid a basso rischio. E’ un progetto integrato in uno studio multicentrico internazionale sulla prevenzione del tromboembolismo – spiega Stefano Savonitto, direttore dell’Unità complessa di Cardiologia dell’ospedale Manzoni – In Lombardia abbiamo avuto una percentuale di ricoverati un po’ fuori misura, sopra la media rispetto ai dati europei. C’è quindi la necessità di screenare meglio in prima battuta quali sono i pazienti che hanno bisogno di ricovero rispetto a chi può essere gestito fra ospedale e territorio anche sfruttando solo semplici sistemi di telemedicina. Va validata e certificata la definizione di paziente a basso rischio. Noi siamo al lavoro a Lecco su questo fronte, e possiamo farlo perché c’è una cooperativa di medici di medicina generale che rappresenta il 75% del totale”.