Una nuova e interessante “Pillola di Ottimismo” è stata pubblicata sulla pagina Facebook nata dalla collaborazione di numerosi esperti, ma soprattutto dal consueto post pubblicato regolarmente dal virologo Guido Silvestri, della Emory University di Atlanta.
In dettaglio, oggi il Professor Giuseppe Remuzzi, Direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, ha dedicato un approfondimento alla riapertura delle scuole: “E’ ancora un’incognita in Italia, ma anche all’estero. Ogni Paese viaggia in ordine sparso, mancano modalità univoche per far tornare gli alunni tra i banchi, un terzo degli insegnanti non ne vuole sapere di rientrare – chi per paura, chi per comodità – e preferirebbe la didattica a distanza. Mancano poco più di 30 giorni al rientro, eppure questa attesa, e scelte esclusivamente difensive, potrebbero avere conseguenze “catastrofiche” e lasciare “segni indelebili su un’intera generazione”.”
“E se la chiusura delle scuole facesse più male che bene? Se lo chiedono pediatri ed educatori del Regno Unito che, in una lettera aperta firmata da più di 1.500 membri del «Royal College of Paediatrics and Child Health», scrivono: «Continuare a tenere chiuse le scuole lascerebbe segni indelebili a un’intera generazione». Certo c’è l’educazione virtuale, ma è ben lontana da quella vera – dicono – e costringe molti genitori a lasciare il lavoro per prendersi cura dei bambini.
Così in 20 Paesi le scuole le hanno riaperte ai primi di giugno: altri invece, Taiwan, Nicaragua e Svezia, non le hanno chiuse mai. Insomma è un po’ come se il mondo stesse facendo un grande esperimento con qualcuno che ha imposto dei limiti molto stretti, altri che hanno lasciato i bambini liberi di giocare, con le mascherine o senza.
E com’è finita? Purtroppo non si sa. Science ha voluto vederci chiaro, lo ha fatto studiando le riaperture del Sud Africa, Finlandia e Israele. È venuto fuori che i bambini più piccoli raramente contraggono l’infezione e si contagiano l’un l’altro ed è ancora più raro che si portino il virus a casa al punto da infettare i familiari.
Certo non si può pensare di aprire le scuole senza correre qualche rischio; ma Otto Helve, un infettivologo pediatra della Finlandia che ha studiato a fondo il problema, ha scritto recentemente: «Tutti quelli che hanno riaperto hanno potuto constatare che i benefici sono molto maggiori dei rischi».
A questo punto Science prova a farsi le sei domande a cui tutti vorrebbero poter avere una risposta:
1. Quante probabilità hanno i bambini piccoli di ammalarsi e trasmettere il virus?
I bambini piccoli si possono infettare ma non sembrano essere contagiosi, almeno da quanto emerge dagli studi dell’Istituto Pasteur in sei scuole elementari. I ragazzi delle superiori invece 3 volte su 10 hanno gli anticorpi, vuol dire che sono venuti in contatto col virus, mentre insegnanti e membri dello staff hanno anticorpi rispettivamente 4 e 6 volte su 10. Quei ragazzi e quegli adulti si possono ammalare, ma di solito in forma lieve.
2. Dobbiamo lasciare che i bambini giochino insieme come prima?
Sì, dovrebbero poter tornare a correre, giocare e divertirsi il più presto possibile, purché non siano in troppi in una classe sola, e per chi ha meno di 12 anni non c’è nemmeno bisogno di distanziamento. E dovrebbero stare all’aperto più spesso, anche a far lezione quando il tempo lo consente, certamente non in inverno. Gli studenti più grandi è bene che stiano a un metro di distanza, anche se di sicuro non si sa nemmeno questo, perché ciascuno fa un po’ per conto suo, ed è un peccato. Ci vorrebbe una regola per tutta l’Europa, ma non è così. In Olanda per esempio non si richiede nessun distanziamento fino ai 17 anni, senza attenersi troppo ai diktat dei pediatri che vorrebbero comunque qualche forma di distanziamento sopra i 12 anni (da molte parti ci si regola in base a quello che si riesce a fare in pratica, più che alle indicazioni dei medici). In Israele, per esempio, il giorno della riapertura delle scuole i ragazzi erano così entusiasti che è sembrato subito impossibile chiedergli di stare lontani uno dall’altro.
3. I ragazzi dovrebbero portare la mascherina?
Sì e no. Certo, le mascherine sono una delle poche cose davvero importanti per contenere l’epidemia, ma i ragazzi le trovano insopportabili, certe volte poi portare la mascherina senza toccarla, metterla e toglierla, toccarsi continuamente la faccia o soffiarsi il naso è impossibile specie per i più piccoli. Alla fine uno si chiede: queste piccole circostanze che sono comunque frequentissime non vanificheranno il potenziale beneficio della mascherina? Temo che sia proprio così, un compromesso accettabile potrebbe essere quello di chiedere loro di mettere la mascherina e di utilizzarla correttamente solo quando è impossibile mantenere le distanze, almeno per i più grandi e almeno da noi. In altre parti del mondo invece, Cina, Sud Corea, Giappone, Vietnam, la mascherina è un’abitudine, la si usava anche prima del Covid, ormai è come se facesse un po’ parte dell’abbigliamento. E in Europa? La Germania è molto permissiva, agli studenti si chiede di portare la mascherina solo quando vanno in bagno o se sono in tanti vicini in una spazio piccolo (nei corridoi per esempio). In Austria niente mascherina, mentre in Danimarca, Norvegia, Regno Unito e Svezia la mascherina la mette chi vuole e questo vale sia per gli studenti che per gli insegnanti. Lo stesso succede in Canada. Quando parliamo di mascherine a scuola poi bisogna tener conto delle condizioni climatiche, in Israele a metà maggio c’erano 40 gradi e la mascherina era insopportabile e lo stesso vale per certe parti dell’Africa e dell’America Latina.
4. Che cosa dovrebbe fare la scuola se c’è un positivo?
La risposta più semplice ma anche la più corretta è che non lo sappiamo. Se si trova un bambino o un ragazzo positivo al tampone bisogna mandare a casa lui e tutti quelli che hanno avuto contatti con lui o chiudere quella classe o l’intera scuola? C’è chi pensa che basti isolare chi è positivo e i suoi contatti, senza nemmeno bisogno di chiudere la classe, altri vorrebbero chiudere la scuola. Comunque, almeno nei Paesi meglio organizzati, quando si trova uno studente positivo si faranno i test a tutti inclusi quelli che non hanno sintomi e si organizzerà la quarantena per i positivi e per i loro contatti. Tutto questo però non è basato su studi controllati e convincenti, la risposta alla domanda su che cosa si dovrebbe fare quando qualcuno risulta positivo ce l’avremo solo dopo che si sapranno i risultati di due studi in corso in Germania e nel Regno Unito che hanno affrontato questo problema in modo sistematico: tamponi ai bambini delle scuole e ai loro familiari, e dosaggio degli anticorpi.
5. Le infezioni che nascono a scuola possono diffondersi alla comunità?
Questa domanda nasce dalla considerazione che in tutto il mondo, e specialmente negli Stati Uniti, ma anche da noi, almeno un terzo degli insegnanti e dei membri dello staff non ne vogliono sapere di tornare a scuola, preferiscono starne lontano (hanno paura? o forse hanno trovato più comodo fare quello che dovevano fare stando a casa?). Science ha fatto tutto il possibile per rispondere a questa domanda cercando i dati dappertutto, in tutte le parti del mondo. Non è stato facile, ma quello che è emerso in modo abbastanza chiaro è che i casi di malattie gravi tra gli insegnanti sono davvero pochi, con un’eccezione sola, quella della Svezia. Lì non si è fatta mai nessuna politica di chiusura delle scuole, nemmeno nei momenti di massima diffusione del virus; non si è nemmeno modificata l’organizzazione interna, nessuno ha suggerito mascherine, distanziamenti o altro; il risultato è che lì diversi insegnanti si sono ammalati e qualcuno è anche morto. Ma il caso della Svezia non deve diventare una scusa per tenere chiuse le scuole da noi per esempio anche in autunno, perché nel resto d’Europa i rischi che si sviluppino focolai a scuola sono veramente trascurabili.
Quanto poi al fatto che la scuola possa rappresentare un rischio per la comunità questo è davvero improbabile, a detta degli epidemiologi della London School of Hygiene &Tropical Medicine. Di fatto in Danimarca si sono aperte le scuole appena i casi cominciavano a diminuire e non è successo niente; in Olanda mentre il numero di nuove infezioni era stabile, il numero di nuovi casi è rimasto stabile e poi è diminuito proprio mentre le scuole si riaprivano, e lo stesso è stato in Finlandia, Belgio e Austria.
6. Cosa ci aspetta d’ora in avanti?
Dipende. Per i bambini più poveri, i più vulnerabili, la chiusura delle scuole continuerà e forse durerà per sempre. In molte parti del mondo non ci sono le risorse per adeguare gli ambienti scolastici alle esigenze di sicurezza, e qualcuno come il primo ministro del Bangladesh ha detto apertamente che non si riapriranno le scuole finché l’epidemia non sarà completamente vinta, nelle Filippine sarà lo stesso, le scuole si riapriranno quando c’è il vaccino. Nei Paesi che chiamiamo «ricchi», come i Paesi dell’Europa e gli Stati Uniti, i bambini hanno «poco da guadagnare dal lockdown, ma moltissimo da perdere», secondo un lavoro appena pubblicato su Nature che parte dalla considerazione che i bambini non si ammalano o si ammalano raramente.
Questi ragionamenti, s’intende, non vanno mai presi in senso assoluto, insomma non vuol dire che i bambini non si ammalano mai, ma la probabilità di ammalarsi o morire di Covid è molto inferiore a quella di incorrere in altri guai. Un esempio? Negli Stati Uniti fino al 24 giugno sono morti con un’infezione da Covid-19 (che poi siano morti di Covid non è sempre sicuro) 28 bambini sotto i 14 anni. Nello stesso periodo, sempre negli Stati Uniti, 9.622 bambini della stessa età sono morti di incidenti stradali o domestici, suicidi, omicidi e altre malattie che non hanno niente a che vedere con Covid, molte delle quali, per altro, si sarebbero potute prevenire.
Il dottor Munro, un pediatra di Southampton, sostiene anche che tenere i bambini lontani dalla scuola è un rischio anche per la loro salute: finiscono per fare meno attività fisica, per dormire male, per avere problemi nutrizionali, depressione, ansietà, senso di isolamento sociale. E, dato che disoccupazione e stress in famiglia aumentano i casi di violenza domestica, c’è persino il caso che i bambini finiscano per stare peggio a casa che a scuola persino durante la pandemia.
Un editoriale del Times appena pubblicato fa notare fra l’altro che perdere opportunità di formazione per un periodo prolungato sarà «catastrofico» per i bambini.
Tutto risolto allora? Apriamo le scuole e basta? Le conoscenze attuali e il buon senso vanno certamente in questa direzione anche se una serie di regole e di norme che rendono difficile la ricerca in campo pediatrico ci privano delle certezze che vorremmo avere (sono tutti innamorati dello slogan che «il bambino non è un piccolo adulto» ma se facessimo per i bambini almeno quello che si fa normalmente per gli adulti sarebbe già un passo avanti ).
Alla fine penso proprio che le scuole debbano essere riaperte, al più presto. Lo si sarebbe dovuto fare già a giugno, con attenzione, prudenza, poche regole (ma chiare) e tanto buon senso.”