Fra le tante tecniche messe a punto dagli astronomi per scoprire gli esopianeti – vale a dire, mondi al di fuori del Sistema solare – un posto d’onore spetta senza dubbio alla cosiddetta “misurazione della velocità radiale”: è stato infatti questo il metodo che, un quarto di secolo fa, per primo ha consentito di rilevare con successo un pianeta attorno a una stella simile al Sole – scoperta che è valsa, nel 2019, il Premio Nobel per la Fisica a Michel Mayor e Didier Queloz. Tecnica ancora oggi ampiamente utilizzata, la misurazione della velocità radiale delle stelle è prossima ai limiti delle sue possibilità quando si ricercano piccoli pianeti come altre “Terre”. Le perturbazioni indotte dalle stelle stesse possono infatti vanificare gli enormi progressi nella realizzazione di nuovi strumenti in grado di rilevare i loro debolissimi segnali.
Per capire quanto queste perturbazioni possano rendere difficoltose le misure, basti pensare alla stella a noi più vicina: il Sole. La superficie visibile del Sole ribolle di milioni di sacche di gas che si innalzano e sprofondano, con una conformazione che cambia ogni pochi minuti. Ribollio che viene talvolta bloccato dai campi magnetici che circondano le macchie solari, le quali a loro volta fermano la luce, e cambiano velocità man mano che il Sole ruota sul suo asse, con un periodo di circa un mese. Tutti questi fenomeni variano poi ulteriormente nel tempo insieme al livello generale di attività della nostra stella, che si intensifica e si attenua con il ciclo di 11 anni delle macchie solari.
Ora, la tecnica della velocità radiale si basa, ricordiamo, sulla misurazione di perturbazioni provocate dall’attrazione gravitazionale dei pianeti sul segnale proveniente dalle stelle. Ebbene, tutti i processi qui sopra descritti alterano la velocità apparente del Sole con un’intensità centinaia di volte superiore al segnale prodotto dalla presenza di un pianeta come alla Terra. Si tratta di processi che, per essere compresi al punto da poter poi applicare ad altre stelle tecniche in grado di mitigarne gli effetti sulle misure, e dunque per consentire di raggiungere l’obiettivo a lungo termine della ricerca di vita su mondi alieni, richiedono dati di qualità eccezionale.
Per ottenere questi dati, cinque anni fa un team internazionale di scienziati dello Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics (Usa) e dell’Università di Ginevra (Svizzera) ha costruito un telescopio solare a basso costo, LCST (acronimo di low-cost solar telescope), e lo ha collegato allo spettrografo HARPS-N, lo strumento all’epoca più preciso per scoprire esopianeti. Il team ha iniziato le osservazioni il 18 luglio del 2015, e da allora – avvalendosi della struttura del Telescopio Nazionale Galileo (TNG) dell’INAF, a La Palma (Isole Canarie, Spagna) – ha registrato, in tutte le giornate con il cielo sereno, dati solari ogni cinque minuti.
«La scelta di costruire uno strumento semplice e robusto per osservare il Sole è stata ampiamente ricompensata dal catalogo di dati ricco e unico che LCST, accoppiato a HARPS-N, ci ha permesso di ottenere», dice David Phillips, ricercatore allo Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics. Questi dati hanno già portato alla pubblicazione di studi sui processi fisici che guidano le variazioni intrinseche della velocità radiale stellare. Tuttavia, per raggiungere e superare la precisione necessaria all’individuazione di altre Terre servirà una collaborazione aperta, internazionale e interdisciplinare. Ed è con questo spirito che il team annuncia oggi la condivisione pubblica dei dati raccolti nei primi tre anni.
«Si tratta di un insieme di dati senza precedenti in termini di precisione e dimensione del campione», spiega Xavier Dumusque, ricercatore all’Università di Ginevra (Svizzera), «e sono convinto che aiuteranno la comunità nel difficile percorso verso il rilevamento della Terra 2.0».
«L’accoppiata HARPS-N e LCST rende il Telescopio Nazionale Galileo una struttura che opera non solo ogni notte, ma anche tutti i giorni dell’anno», conclude con soddisfazione il direttore del TNG, Ennio Poretti dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, «producendo un flusso di dati davvero continuo verso la comunità scientifica mondiale».
Tutti i dati resi oggi pubblici sono accessibili attraverso il Data & Analysis Center for Exoplanets (https://dace.unige.ch/) ospitato presso l’Università di Ginevra.