Solo in Italia sono oltre 400 mila le persone affette da artrite reumatoide. Una malattia reumatica che colpisce 1 persona ogni 250 abitanti, con un’incidenza di 2-4 nuovi casi per anno su 10.000 individui. Si tratta di una patologia infiammatoria autoimmune, cronica, altamente invalidante e a carattere sistemico. Tra i sintomi più frequenti ci sono: rigidità mattutina prolungata, dolore, tumefazione articolare e deformità articolari tali da poter comportare la progressiva perdita delle proprie capacità funzionali, compromettendo la qualità della vita del paziente in tutti gli ambiti.
«Fra le artriti croniche, l’artrite reumatoide sembra clinicamente più severa nelle donne, le quali mostrano un’attività di malattia basale più elevata, un andamento più aggressivo ed una maggiore disabilità, associate a basse percentuali di remissione della malattia. Sono proprio le donne a essere più colpite, in un rapporto di 4 a 1 rispetto agli uomini, ed in particolare durante il periodo fertile», dichiara la Dottoressa Patrizia Amato, Reumatologa dell’ASL Salerno, Consigliere Nazionale CReI «Nonostante l’artrite reumatoide sia cosi frequente nelle donne la terapia a loro riservata è invece adattata al genere maschile. Da sempre, la medicina utilizza come stereotipo per i trial clinici un soggetto maschile di 70 kg, questo perché studiare la condizione clinica di una donna comporta costi più elevati e modalità più complesse. Cosa comporta però tutto questo? Ovviamente un aumento degli effetti collaterali da parte di donne affette da questa malattia autoimmune. Un problema che non troverà una soluzione fintanto che non si comprenderà che le malattie reumatiche sono clinicamente diverse tra donne e uomini e, di conseguenza, necessitano di un differente approccio clinico e terapeutico – continua la Dottoressa Amato – Così come differente è anche la gestione dell’accettazione della malattia, da una parte le donne, che la accettano con maggior facilità, dall’altra gli uomini, che impiegano più tempo e nella maggior parte dei casi la rifiutano, banalizzando la loro condizione. Proprio per questo, mi sento di dire che l’uomo è colui che ha bisogno di essere più ascoltato e di ricevere un maggior supporto, sia fisico che psicologico. Il pericolo che ne consegue è la possibile perdita di aderenza alla terapia. Per tutte queste ragioni, sia cliniche che psicologiche, un approccio più orientato al genere, con strategie terapeutiche dedicate rappresenterebbe l’arma vincente per una maggiore appropriatezza terapeutica, efficacia, sicurezza e aderenza terapeutica».
Come è possibile scegliere la terapia adatta per le persone affette da questa patologia? «L’artrite reumatoide è una malattia cronica altamente invalidante, se non trattata per tempo. L’obiettivo, dunque, è quello di intercettare la patologia nella sua fase iniziale e intraprendere subito una terapia in grado di mettere il paziente nelle migliori condizioni possibili. Troppo spesso, infatti, si tende a ricorrere al cortisone, farmaco considerato come una sorta di “coperta farmacologica” nel momento in cui la terapia di fondo non può essere gestita. Proprio per questo il ruolo svolto dal proprio medico di base è fondamentale: deve esser in grado di riconoscere il bisogno di ricorrere al parere di un reumatologo», sostiene il Dottor Angelo De Cata, Presidente CReI. «La terapia dell’artrite reumatoide è basata sull’uso, in prima linea, di farmaci di fondo tradizionali e, nei casi poco o non responsivi, sull’inserimento dei cosiddetti farmaci biotecnologici che hanno cambiato profondamente la qualità di vita di questi malati, permettendo di raggiungere più facilmente la remissione e di abbandonare anche in tempi rapidi il cortisone. Una novità recente è la disponibilità di farmaci biotecnologici che inibiscono le Jak chinasi. Si tratta di farmaci rapidi e assunti per bocca che possono essere inseriti in terapie sin dalle primissime fasi della malattia, immediatamente dopo i farmaci di prima linea come il methotrexate. Non c’è dubbio che questi nuovi farmaci, amplificando notevolmente l’offerta terapeutica, abbiamo reso ancor più facile l’accettazione e, di conseguenza, l’aderenza alle terapie da parte dei malati. La somministrazione per bocca permette al malato di avere un’opzione terapeutica in più, in alcuni casi più accettata rispetto alle tradizionali vie di somministrazione dei farmaci biotecnologici. La diagnosi precoce e l’inserimento, se necessario, di un farmaco biotecnologico sono i punti chiave per ridurre la percentuale di quei pazienti che smettono di seguire le terapie prescritte e che si attesta ad oggi intorno al 40% circa dei casi», conclude De Cata.
Quanto è importante una diagnosi precoce? È possibile prevenire l’artrite reumatoide? «L’artrite reumatoide è tra le malattie reumatiche più conosciute. In un periodo come questo, dove l’accesso alle strutture sanitarie è stato purtroppo limitato, per ovvie ragioni, abbiamo riscontrato un calo delle nuove diagnosi di circa il 40% rispetto allo scorso anno – sostiene la Dottoressa Daniela Marotto, Reumatologa dell’ASSL Olbia e Consigliere Nazionale CReI. «Questo mette in luce una grande problematica: il ritardo diagnostico della malattia, che va a incidere negativamente sulla loro prognosi. Ricordiamo, quindi, che la diagnosi precoce è fondamentale per intervenire tempestivamente sull’artrite reumatoide. Numerosi trial clinici stanno cercando di individuare dei pazienti in stadio preclinico, cioè pazienti in cui si ha un’alterazione di specifici biomarkers ma non è ancora presente la sintomatologia, in modo da poter valutare la possibilità di intervenire precocemente e cercare di evitare lo sviluppo della malattia. Contrariamente a quanto si pensa, è possibile mettere in atto delle strategie preventive anche per l’artrite reumatoide, nonostante siano patologie in cui vi è una componente genetica si è visto che l’adozione di stili di vita sani basati su un’adeguata attività fisica, il controllo del peso, un’alimentazione sana come la dieta mediterranea e l’abolizione del tabagismo avrebbero un ruolo protettivo».
Ma non è tutto: «Inoltre il fumo di sigaretta può portare a infezioni parodontali che possono essere considerati un ulteriore fattore di rischio per la patologia. Non bisogna, inoltre dimenticare che sono patologie a predisposizione genetica ma questo non vuol dire che tutti i pazienti svilupperanno la malattia, in quanto diversi fattori ambientali sembrerebbero agire portando a variazioni nell’espressione genica e quindi allo sviluppo della malattia», sostiene la Dottoressa Amato. «Da qui la possibilità – conclude la Dottoressa Marotto – di prevenire la patologia agendo su fattori ambientali».