“La pandemia ha comportato un danno indiretto a tutto il Sistema sanitario nazionale perché da fine febbraio a maggio il tipo di assistenza che abbiamo potuto dare ai nostri pazienti è stato sicuramente di qualità molto scadente per le esigenze di contenere la pandemia”. Lo ha detto Lorenzo Badia, dirigente medico Malattie Infettive presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna intervenendo alla presentazione, tramite webinar, di Together we can stop the virus, la campagna promossa da Gilead Sciences che da oltre 30 anni si occupa di Hiv nel campo della sensibilizzazione, della prevenzione e delle cure.
“Sicuramente i pazienti con Hiv sono stati tra le categorie più colpite in modo indiretto da nuovo virus. C’è stato anche un problema di accesso ai test. Ci sono già alcuni report internazionali che ci dicono come durante la prima ondata di Covid-19 ci sia stato di fatto un aumento dei contagi di Hiv in generale e un minor ricorso ai test diagnostici e alla profilassi post esposizione”. “Questa è la misura che ci consente, nel momento in cui siamo esposti accidentalmente all’Hiv per motivi professionali o per motivi sessuali, andare entro le 48 ore in un Pronto soccorso per iniziare una terapia antivirale per proteggerci dall’infezione. Questa strategia durante il lockdown – ha detto l’esperto – è stata molto poco utilizzata perché la raccomandazione era di non intasare gli ospedali per nessun motivo. L’impatto dell’emergenza sanitaria dal punto di vista scientifico forse non riusciremo mai a quantificarlo. Sicuramente c’è stato e va computato nel novero dei danni provocati da Sars-Cov-2“.
“Indubbiamente, possiamo trarre da questa esperienza qualche cosa di positivo: la possibilità di superare le pratiche burocratiche (appuntamenti da ricordare, cartelle cliniche e documenti da portare con sé ogni volta). Inoltre, la maggior parte dei centri clinici fornisce la terapia per un periodo limitato di due mesi. Questo significa che una persona con Hiv deve andare in ospedale sei volte l’anno per avere i suoi farmaci. Durante la chiusura totale, ovviamente, si davano più mesi di terapie, una banalità che però ad una persona cambia la vita. Un conto è dover recarsi in ospedale 6 volte l’anno, un altro è avere la possibilità di accedervi due/tre volte. Un aspetto che sembra di poco conto ma ha un notevole impatto sulla qualità della vita dei pazienti”.