Tiziano Ferro si racconta a cuore aperto: “a 34 anni ero un alcolista. Quando bevi diventi migliore sapendo di essere la versione peggiore di te stesso”

Il racconto shock di Tiziano Ferro: il cantante scrive in una lettera di essere stato un alcolista a 34 anni
MeteoWeb

Tiziano Ferro si racconta a cuore aperto: in parellelo con l’uscita del docu-film “Ferro”, prodotto da Amazon e disponibile su Prime Video dal 6 novembre, il cantante italiano ha raccontato il suo ‘lato oscuro’, un Tiziano inedito, che in pochissimi conoscevano. Tiziano Ferro racconta la sua esperienza con l’alcolismo in una lunghissima lettera pubblicata sul Corriere della Sera:

Nessuno mi poteva sopportare quando bevevo. E chi ci riusciva o aveva pietà, o era come me. O più disperato di me. Oggi che non bevo da diversi anni ho capito che quella disperazione aveva un senso, uno solo: aiutare qualcun altro. È diventato chiaro circa un anno fa, durante un meeting di recupero a Milano. Entra un ragazzo nuovo, distrutto, al suo terzo o quarto giorno di sobrietà. Aspetta la fine del meeting, poi mi si avvicina e mi dice: «Io non ce la faccio più, eppure non ci volevo venire qua. Avevo deciso che sarei entrato e uscito. Sono rimasto perché ho visto te. E se anche tu sei qui significa che devo tornare». Avrà avuto venticinque anni. Io devo smettere di bere, mi ripetevo. Avevo le transaminasi alte. Iniziavo ad avere problemi di fegato.  Non volevo morire per una cosa simile. No. Pensavo «non berrò» e si spalancavano il buio, l’ansia, il terrore di tante ore di vuoto che mi separavano da chi non lo faceva, da chi non aveva bisogno di rifugiarsi nella dimensione parallela dell’alcol. Da chi non aveva necessità di creare un sé diverso, fatto di cose nuove, gesti che vanno bene al mondo, un mondo in cui si è capaci di essere «socialmente adeguati» e di piacere a tutti, per non rischiare mai di farsi vedere brutto, antipatico, noioso, una delusione. Ed ero invidioso. Non riuscivo a non bere ma ero invidioso di chi vedevo forte del privilegio di essere astemio, che non lo sapeva e manco voleva saperlo cosa fosse l’ubriachezza; ero invidioso di chi, di fronte a un momento di vuoto, lo accetta per quello che è – e va incontro a ciò che la giornata non ha da offrire. L’ignoto. Ma gli alcolisti non contemplano l’ignoto“.

tiziano ferro
Daniele Venturelli

Una volta ho sentito dire che i cani non soffrono il trascorrere del tempo e che non hanno riferimenti temporali. L’alcolista è esattamente l’opposto. L’alcolista fraziona le settimane, i giorni, le ore, e tutte quelle finestre di tempo, anche le più piccole, devono essere piene, utili, remunerative, in un certo modo epiche. Magari questo non è il perfetto e reale profilo clinico di chi dipende dall’alcol ma sicuramente è il perfetto profilo psicologico mio. E mi ripetevo: oggi so che non berrò, sono stanco, arriverò a casa, disferò la valigia, giocherò al computer, ordinerò qualcosa da mangiare e guarderò la tv. Programmare non aiuta la sobrietà, semmai la raggira, e in realtà nemmeno gli obiettivi la aiutano, rendono solo più patetico il fallimento. Mi svegliavo la mattina dopo col telefono pieno di sms di persone nuove che mi scrivevano, che speravano di rivedermi perché gli avevo promesso qualcosa che nemmeno ricordavo: una vacanza, l’autografo su un disco, una cena… la cittadinanza italiana – e adesso pensandoci mi scappa un sorriso. Però loro non cercavano me, non lo sapevano ma cercavano un altro, cercavano quello bevuto. E quello non bevuto non era così simpatico, pronto a rispondere, a lanciarsi. Era uno sfigato di provincia che ai loro occhi faceva un bel lavoro, che aveva pure una discreta quantità di soldi, anche se non li sapeva usare, che aveva più di trent’anni e meno di quaranta, fisicamente ok – un 5 e 1/2 circa secondo gli standard estetici incrostati di preconcetti, un 2 e 1/2 secondo me -, che aveva fatto meno sesso della media dei suoi coetanei eterosessuali e molto, molto meno sesso dei suoi coetanei omosessuali. Uno sfigato di provincia che aveva pure le transaminasi alte. Forse le transaminasi sono state le mie uniche vere alleate in quel periodo, le più sincere inevitabilmente. Mi dicevano in faccia che indietro non si tornava, passata una certa soglia si poteva solo andare avanti.”

tiziano ferro
foto di Daniele Venturelli-Getty Images

L’alcol, come qualsiasi altra dipendenza, ti butta giù ma dal punto più alto ed eccitante. Diventi migliore sapendo di essere la versione peggiore di te stesso. È come barare a poker. Lo sai, vinci e te ne freghi, ma poi non hai vinto, non sei un campione, sei un baro. E ogni notte pensavo: da domani ricomincia la guerra. La guerra a immaginarmi nel mondo senza l’alcol, a immaginarmi tra la gente senza bere ma senza sottrarmi. Perché avvicinarmi mi richiedeva quella fuga, quella bombola d’ossigeno per sentirmi «all’altezza». Per evitare di bere dovevo evitare le persone. Non c’erano buone ragioni, solo tante scuse. Ero finito in ospedale per colpa dell’alcol, ma solo in ospedali belli, non avevo mai chiesto l’elemosina per bere, indossavo vestiti firmati e bevevo da bicchieri eleganti, avevo letto, studiato, sapevo le lingue, ero puntuale sul lavoro, sempre pulito, sorridente, accomodante, gentile, avevo salvato il mondo durante le mie bevute, filosofeggiando in maniera eccelsa, da solo o in compagnia. Ma la verità è che ero come tutti quelli che bevono. Ero come loro. E quella dolente umanità era come me. Io ero un alcolista. E avevo solo trentaquattro anni“.

tiziano ferro
foto di Daniele Venturelli-Getty Images

In quel periodo ho sentito separarsi definitivamente il ragazzo dall’uomo. La perdita dell’innocenza, del sogno. Era il brutto che diventava possibile, pure probabile. Nei gruppi di recupero non ti consegnano nessuna formula magica, nessun libro delle soluzioni, né le chiavi del successo. Nei gruppi ti suggeriscono come vivere senza alcol. Perché la vita bisogna viverla senza dipendenze. Sempre e comunque come deve arrivare, con i suoi picchi e le sue infinite vie di mezzo. I gruppi di recupero mi hanno aiutato a ricordare che amare la vita è una possibilità concreta, anche per noi «dimenticatori seriali». E con la sobrietà ho recuperato la memoria, la vista anche, di certo il mio rapporto con la spiritualità, e non parlo di religione. Mi sono ripreso il Dio che mi avevano spiegato da bambino. Il Dio che è sempre stato lì. L’avevo parcheggiato da qualche parte nella memoria insieme alle parole dei preti più devoti, quelli che mi parlavano di Gesù profeta di uguaglianza e di misericordia, quelli che mi raccontavano le lacrime di Maria disperata davanti al figlio crocifisso. Dio per me era quello. Quindi prego, prego affinché la vita vada dove vuole. Non metto in piedi una negoziazione con Dio, chiedo soltanto di trovare la forza di affrontare ogni situazione, per come arriverà. Poi tutte le opzioni mi piacciono, vanno tutte bene. E quando accetto le infinite possibilità della vita mi sento in qualche modo vincente in partenza, ogni mattina. Quindi non bevo. Non bevo per me e basta. Non bevo perché accetto la vita, non bevo perché se non bevo vivo meglio anche nella difficoltà, nell’angoscia, tutte quelle situazioni che rimarrebbero comunque tali. Non bevo perché non ho più bisogno di anestetizzare niente. Ho deciso di provare cordoglio, fastidio, sdegno, disincanto ma anche piacere, gioia, euforia, esaltazione, delirio. Perché abbandonarsi a sentimenti fasulli e a sensazioni fittizie è la morte, prima dell’anima e poi anche del corpo. È questa la morte da alcolismo. È una cosa che non si può raccontare. Nessuno la dice, nessuno la vede”.

Non è come quelli che minacciano di suicidarsi, qui si parla di storie che non arrivano all’orecchio dei familiari più vicini, che vanno avanti schiacciate dal silenzio, non c’è un libro di memorie da leggere poi, o un dibattito con l’autore in libreria. L’alcolismo ti guarda appassire in solitudine, mentre sorridi di fronte a tutti. Forse piangevo perché mi toglievo la vita ogni giorno. Forse era il dolore nel morire una, due, trecento volte. Potevo pensare quello che volevo, ma quello strazio, quel tormento non generavano niente, era solo disastro. Ed è stato quando l’ho capito che è nata la mia voglia di risalire, da lì o da una delle altre decine di volte simili a quella. Era tutta una rovina, ma evidentemente prima della ricostruzione bisogna demolire, no?

Condividi